C’è grande fermento nel centrodestra, l’annoso declino di Berlusconi sta intaccando l’anima stessa del PDL, e per molti generali, sergenti e semplice truppa è il momento dell’incertezza, del chiedersi quale sia la tattica migliore, continuare a lottare con il vecchio leone con la rabbia e il messaggio semplice del populismo berlusconiano o costruirsi un futuro in un panorama politico “normale”, quando non ci sarà più un leader maximo e conteranno, forse, di più i contenuti, e le culture politiche.
Tuttavia, come spesso succede in Italia, tutto ciò avviene tardi, troppo tardi, la questione è stata trascinata troppo a lungo, tra titubanze e psicodrammi, e la dirigenza del centrodestra non è stata capace di gesti coraggiosi.
Da qualche parte, in qualche confortevole salotto, Gianfranco Fini starà sorseggiando l’amaro calice della vendetta. Come molti leghisti della prima che avevano contestato Bossi negli anni ‘90, poi scomparsi di scena, ha avuto ragione troppo presto, prima che anche gli altri se ne convincessero.
Certo, di Fini si può dire che la sua provenienza e di molti suoi compagni di avventura (da Menia a Granata) rendeva meno credibile il tentativo di fare un centrodestra moderno, una sorta di destra laica moderna proveniente dal post-fascismo, sicuramente bizzarra, anche troppo.
Tuttavia nel 2012 era emerso un altro tentativo, più serio, e proveniente da fonti più coerenti, era quello nato nell’alveo del governo Monti, da una parte della società civile moderata nei toni ma radicale nelle volontà di riforma, che aveva avuto un riscontro in molti ambienti dei partiti, anche di PD e PDL, tra coloro che si sentivano più liberali e meno soggetti all’asfissiante dominio berlusconiano da una parte e sindacal-conservatore dall’altro. Nel PDL in particolare l’area di Italia popolare era interessata. E quindi Lupi, Quagliariello, e anche il giovane sindaco “formattatore” di Pavia Cattaneo, ma si sa che il coraggio è un dono e o lo sia ha o non se lo si può dare, e nel Paese in cui anche gli imprenditori spesso non sanno fare altro che “investire” nel mattone ed evitano ogni rischio, tutti costoro hanno poi subito il richiamo della foresta, costretti ancora una volta a una umiliante recita della fedeltà al grande capo.
L’esperienza di Monti e di Scelta Civica tuttavia ha resistito, e per ora ha avuto più fortuna di quella di Fini, con iniziative di radicamento territoriale e sondaggi che hanno da un pezzo smesso di scendere e lo danno sul 5%.
Chissà che il coraggio dei pochi non sia da mettere da parte negli archivi della politica come l’ennesimo velleitario tentativo di quelli che avevano avuto coraggio troppo presto, e che solo dopo anni hanno visto arrivare il loro momento, ma invece dovessimo scoprire, sulla base di quello successo settimana scorsa in Senato, che finalmente il loro momento è ora.