16 ottobre 1943: uno dei giorni più tristi per Roma. Esattamente settant’anni fa, la capitale assistette al rastrellamento degli ebrei ad opera dei nazisti. Li cercarono in tutta la città, indirizzi alla mano, ma soprattutto li cercarono al ghetto di Roma, al Portico di Ottavia e dintorni, sicuri che lì ne avrebbero trovati una gran parte. Ne arrestarono oltre mille e, tempo qualche giorno, li deportarono in vagoni piombati fino ad Auschwitz. Quattro su cinque furono immediatamente uccisi nelle camere a gas.
“Quelle ferite non si sono mai rimarginate“, come ha detto il presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici durante la cerimonia in sinagoga, al Tempio Maggiore. Le ferite fanno male soprattutto perché sono legate a “vergognose complicità degli ufficiali dell’anagrafe e dei militari fascisti che hanno tradito i cittadini ebrei”, ma anche dei tanti delatori che per qualche soldo rivelarono nomi e indirizzi.
“Chi riuscì a sottrarsi al processo deve ringraziare le loro vittime che furono gasate e non poterono inchiodarle alle loro responsabilità – ha ricordato con fermezza Pacifici -. Ci sono stati anche conventi che aprirono le loro porte agli ebrei in cambio della conversione o di denaro. Tutto poté avvenire grazie all’intervento di troppi. Ma non possiamo dimenticare che se tanti si sono salvati è stato perché in tanti hanno aperto le loro porte senza chiedere nulla in cambio. Furono i giusti a salvare l’onore dell’Italia”.
“L’Italia che ha partorito il fascismo – ha continuato – ha il dovere di coltivare la memoria, per sé stessa e per l’Europa”. In questo senso, ha auspicato anche una rapida approvazione del disegno di legge che introduce il reato di negazionismo: “Se anche la Camera darà il via libera al ddl senza alcun voto contrario saremo il quindicesimo paese europeo ad aver introdotto tale norma – ha precisato -. E’ una medicina che però non potrà mai sostituire la didattica sulla shoah“.
Ad ascoltare c’è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, accolto da un applauso: kippah in testa come prevede l’uso ebraico per gli uomini, non ha preso la parola durante la cerimonia, se non fuori dalla sinagoga per i giornalisti, sottolineando che “questa è una grande giornata di coesione e unità di tutte le fedi e tutte le religioni”.
E’ presente in spirito anche papa Francesco, che sceglie di inviare un messaggio alla Comunità ebraica che viene letto nel Tempio: “La cerimonia di oggi alla sinagoga di Roma per ricordare il rastrellamento degli ebrei settant’anni fa nella Capitale da parte dei nazisti, sia una memoria per il futuro”, rappresenti ”un appello alle nuove generazioni a non lasciarsi trascinare dalle ideologie” e ”non abbassare mai la guardia contro razzismo e antisemitismo, da qualunque parte provengano”.
Dopo il momento al Tempio, hanno preso la parola il presidente della regione Nicola Zingaretti (”Roma oggi unita non dimentica: il 16 ottobre è la pagina drammatica di un colpo a una comunità, all’identità di questa città e del nostro paese. Furono portate via oltre mille persone, altre mille dopo il 16 ottobre, ci sono state delle vittime ma c’è una storia che si è intrecciata e che riguarda tutti noi”) e il sindaco di Roma Ignazio Marino: “L’indifferenza colpevole di quei giorni fu un’altra atroce ferita inferta alla comunità ebraica, che ancora oggi non ha rimarginato le sue ferite“.
Inevitabile, anche se solo a margine della cerimonia in sinagoga (“Profanerebbe questo luogo sacro” ha sottolineato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione comunità ebraiche italiane), un riferimento al caso di Erich Priebke, con la vicenda della sepoltura non ancora risolta: “Dobbiamo smettere di nominare quel nome. Lui e’ il boia delle Fosse Ardeatine e basta – ha ricordato Pacifici -. Non ci interessa dove porteranno la salma, ma l’importante e’ che non ci sia nessun mausoleo o luogo di pellegrinaggio”.
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Impensabile raccontare cosa è stato e che significato ha questo 16 ottobre senza sentirlo dalla viva voce degli ebrei di Roma. Ce lo facciamo spiegare da una persona che è nata pochissimo tempo dopo quel maledetto giorno, ma che porta in sé ancora le ferite di una ferocia pianificata a tavolino. Amedeo Tedesco, membro della Fondazione CDEC – Dipartimento Cultura Comunità Ebraica di Roma, non nasconde quelle ferite, anzi, le racconta perché la gente sappia, per quanto sia difficile capire e spiegare.
Tedesco, che significato ha per la comunità ebraica di Roma il 16 ottobre?
Per noi è una ricorrenza molto triste, che ci rimanda a quello che è accaduto giusto settant’anni fa. Allora fu circondato tutto il quartiere, al portico di Ottavia, lì dov’è la sinagoga. Sono stati inviati dei camion con i tedeschi, che sapevano dove abitavano gli ebrei in tutta Roma. Con le leggi razziali del 1938 era iniziata la discriminazione degli ebrei ed erano stati censiti dal Ministero dell’interno. Quando il colonnello Herbert Kappler fece scattare l’operazione, all’alba del 16 ottobre del 1943, fu circondato come dicevo tutto il portico di Ottavia, dove abitava un gran numero di ebrei, ma la polizia tedesca arrivò anche nelle altre zone di Roma. Avevano l’indirizzo esatto, il numero civico, il piano delle abitazioni degli ebrei e il numero delle persone che componevano le famiglie.
Cosa accadde casa per casa?
Bussarono alla porta e consegnarono un biglietto, su cui era scritto che entro venti minuti tutta la famiglia sarebbe stata trasferita: era necessario portare con sé cibo per almeno otto giorni, coperte, gioielli e chiudere bene l’appartamento a chiave. Neppure i malati potevano rimanere lì, perché «al campo» ci sarebbe stata l’infermeria. Fu una delle carognate messe in atto anche grazie al capitano Theo Danneker, un giovane SS chiamato a Roma da Kappler, un esperto dell’inganno.
In che senso?
Gli ebrei in un certo senso si fecero trovare piuttosto sprovveduti quel giorno perché venti giorni prima Kappler aveva convocato presso di sé il rabbino capo di Roma e i dirigenti della Comunità ebraica, dimostrando loro tutto il suo disprezzo ma dicendo di aver bisogno del loro oro. Immagini quanto oro poteva avere la comunità di Roma, dopo che già nel 1938 i cittadini ebrei erano stati mandati via dai loro posti di lavoro e vivevano grazie all’aiuto che ricevevano e arrangiandosi in qualche modo. In ogni caso, pretese 50 chili d’oro da consegnare in 36 ore, altrimenti sarebbero stati deportati immediatamente duecento ebrei romani. All’inizio fecero un po’ di resistenza, ma poi si decise di iniziare la raccolta: qualcuno disse che i tedeschi erano persone precise, di parola, per cui consegnare l’oro avrebbe voluto dire essere risparmiati. La raccolta fu portata a termine, anche grazie alla collaborazione di molti cittadini romani che vi parteciparono, e i 50 chili d’oro furono consegnati a Kappler.
Non servi a nulla, però.
Pensi che qualche giorno prima Kappler aveva fatto arrestare dal generale Graziani oltre 2000 carabinieri: loro erano fedeli al Re, per cui avrebbero potuto ostacolare l’esecuzione della retata al ghetto che il colonnello aveva già in animo di fare. In tutto portarono via 1022 ebrei.
C’era anche la sua famiglia tra quelle persone?
Fortunatamente no. La mia famiglia abitava al Testaccio e quella mattina in casa c’era mia madre e con lei mia sorella, di quattro anni, mio padre non era con loro. All’improvviso arrivò il portiere e disse loro di andare via assolutamente «perché stanno succedendo cose strane». Mia madre ha preso con sé mia sorella, è uscita, ha chiuso la porta e ha raggiunto un’altra scala di quel grande condominio. Pochi minuti dopo sono arrivati i tedeschi, accompagnati chiaramente dai fascisti: suonarono senza che nessuno rispondesse, sfondarono la porta, ma non trovarono nulla. Nel frattempo passò una signora che abitava nel palazzo e vide mia madre e mia sorella sulla scala. Le disse che aveva paura per quello che stava succedendo, così quella donna le disse: «Non stare qui, entra a casa mia». Quella donna nascose mia madre e mia sorella per alcuni mesi e io sono nato a casa sua, a novembre.
Chi invece era rimasto coinvolto nel rastrellamento dov’era stato portato?
Loro furono portati a via della Lungara, al Collegio militare, lì rimasero tre giorni. Si attendeva tra l’altro una reazione ferma del Vaticano, visto che il papa di allora era stato avvertito di quanto era accaduto: quella reazione ferma, però, non ci fu, così il 18 ottobre dei camion portarono queste persone alla stazione Tiburtina. Caricate sui carri bestiame, furono inviati ad Auschwitz: all’arrivo furono mandati quasi tutti nelle camere a gas e cremati, tranne duecento persone che rimasero nel campo a lavorare. Di quei 1022 ebrei, sono tornate a Roma solo sedici persone, tra cui l’unica donna, Settimia Spizzichino.
In quella retata qualche componente della sua famiglia fu deportato?
Quel 16 ottobre furono catturati una sorella di mia madre col marito e la figlia di nove mesi, un altro fratello di mia madre e il padre. Una vera disgrazia. Ma non sarebbe stata l’ultima a colpire la mia famiglia.
Cosa accadde in seguito?
Il 23 marzo 1944 un gruppo di partigiani delle brigate Garibaldi compì un attacco contro l’undicesima compagnia del terzo battaglione “Bozen”, volontari dell’esercito tedesco che Kappler aveva fatto venire qui per aiutarlo nella caccia ai partigiani. Una bomba uccise 33 militari e i tedeschi, su ordine di Hitler, fecero scattare una rappresaglia di 10 a uno: portarono alle Fosse Ardeatine 335 persone, tra cui mio padre, e lì le fucilarono.
Lei non ha vissuto “quel” 16 ottobre: come le è stato raccontato nel tempo?
Di queste cose inevitabilmente abbiamo sempre parlato, visti i lutti che abbiamo avuto. Mio padre poi l’hanno cercato espressamente, c’era chi spiava: i tedeschi pagavano chi permetteva loro di catturare le persone, 5mila lire per un uomo, 3mila per una donna, mille per un bambino. Tornando al racconto, io ho conosciuto molte delle persone che sono sopravvissute a quell’inferno, come Piero Terracina, Sami Modiano, Shlomo Venezia (che purtroppo non c’è più): da loro mi sono fatto raccontare molte cose, conosco gran parte delle loro storie.
Immagino che raccontare e farsi raccontare tutto questo sia doloroso.
Guardi, io ritengo che raccontare queste cose sia un dovere e io ne parlo soprattutto ai giovani, alle classi che vengono in visita alle Fosse Ardeatine o che mi invitano nelle loro scuole. Perché altrimenti loro non sanno.
Cos’è particolarmente difficile da spiegare loro?
Il fatto che ciò che è accaduto è al di là di ogni mentalità umana, che tutto questo sia stato messo in atto da un popolo civile, di un paese come la Germania ricco di scienziati e filosofi. Il tutto invece è stato pianificato a tavolino, alla famosa conferenza di Wannsee in cui quindici persone programmarono lo sterminio di tutti gli ebrei d’Europa: da lì in particolare è nato Birkenau, il vero campo di sterminio vicino ad Auschwitz.
Il fatto che questa ricorrenza cada proprio nei giorni successivi alla morte di Erich Priebke, con le polemiche feroci legate ai funerali e alla sepoltura, che cosa suscita in voi?
Questa è un’altra pagina molto pesante. Io faccio parte anche dell’Anfim, l’associazione delle famiglie italiane dei martiri e Priebke in qualche modo ci chiese una sorta di grazia. Qualcuno non si era opposto, altri (me compreso) no. Credo che Priebke, come Kappler, sia stato un nazista al cento per cento, a via Tasso è stato capace di torture degne del medioevo, strappando unghie, denti o persino la carne. Va esclusa assolutamente l’ipotesi di fare una tomba a Priebke anche solo nei paraggi di Roma, ci sarebbe senz’altro un pellegrinaggio di fascisti, neonazisti e negazionisti, qui non lo voglio. Sono contento che sia morto, così almeno non se ne parla più. E visto che nessuno lo vuole seppellire, dopo una cerimonia assolutamente privata, senza schiamazzi, si cremi il corpo e le ceneri siano date al figlio e le porti dove crede. Tanto il male che ha fatto rimane.