Jens Stoltenberg che rassegna le dimissioni, Erna Solberg che presenta il suo governo, Lars Løkke Rasmussen che finisce nei guai, Fredrik Reinfeldt che rilancia in vista delle elezioni dell’anno prossimo e Jyrki Katainen che parla di euro e di Europa. Dalla Svezia alla Norvegia passando per la Danimarca e la Finlandia, questi sono giorni in cui i leader politici, i singoli, finiscono per rubare la scena a tutto il resto.
L’evento politico più importante tocca la Norvegia, dove ieri è stato presentato il nuovo governo conservatore. Erna Solberg, leader della Destra, guiderà un esecutivo dove donne e uomini si spartiscono equamente le poltrone: diciotto i ministeri, compreso l’ufficio del primo ministro.
E così la Norvegia cambia ufficialmente colore. Finisce la stagione del governo laburista: otto anni che verranno ricordati come gli anni Jens Stoltenberg, uno dei politici più amati nella storia del paese. Ma non è affatto detto che Stoltenberg abbia imboccato il suo viale del tramonto: alle elezioni del 2017 potrebbe essere ancora lui a guidare i laburisti. Carisma e peso politico di certo non gli mancano.
Nella vicina Svezia gli ultimi sondaggi propongono numeri oscillanti ma raccontano la solita storia: il centrosinistra ha preso il largo, riconquistando tutti quei voti persi negli ultimi anni. Il governo di centrodestra insegue a distanza. Male anche il partito dei Moderati del primo ministro Reinfeldt: 23,6 per cento secondo l’Aftonbladet, 25 secondo lo Svenska Dagbladet. Risultati così bassi non se ne vedevano dal 2010. Se si ingolfa anche la locomotiva dell’alleanza di centrodestra, allora per Reinfeldt la partita può considerarsi già persa.
In una lunga intervista rilasciata proprio al quotidiano Aftonbladet martedì scorso, il premier ha provato a rialzare la testa: l’obiettivo è e resta vincere le elezioni dell’anno prossimo. Per farlo lui stesso e i suoi ministri saranno più presenti sul territorio (e c’è da scommetterci anche nei media) per raccontare agli svedesi quanto fatto fino a oggi. Il problema è che gli svedesi però sembrano aver già deciso. E ogni passo che il centrodestra prova a fare si trasforma in una trappola potenziale.
Commenti caustici e polemiche ha suscitato ad esempio il logo elettorale del partito di Reinfeldt: una M blu che sta per ‘Moderati’, un nya in oro che sta per ‘nuovi’ e uno slogan che è tutto un programma, “il partito dei lavoratori svedesi”. Una frase che secondo sinistra e sindacati offende le migliaia di persone che hanno perso il lavoro negli ultimi anni.
In effetti la disoccupazione nel paese resta alta: 8,5 per cento, in certe zone come quella di Trollhättan si supera il 15. Stando alle cifre, negli ultimi mesi è cambiato molto poco. Ed è soprattutto questo che gli elettori rimproverano al governo.
In Danimarca, invece, per una volta non è il partito laburista della premier Helle Thorning-Schmidt a stare sulla graticola. In questi giorni a prendersi titoli e critiche è stato Lars Løkke Rasmussen, ex primo ministro conservatore e leader dei Liberali, la principale forza di opposizione. È infatti saltato fuori che Rasmussen nel corso di viaggio ufficiali e trasferte di lavoro quale presidente del Global Green Growth Institute non avrebbe badato a spese, attingendo ai soldi che lo stato danese destina all’istituto. Una brutta figura.
A biasimarlo l’opposizione in blocco, membri del centrodestra e molti politici del suo stesso partito. Rasmussen ha ammesso lo sbaglio (con scuse tardive e deboli, a essere sinceri) ma il gesto non è bastato a tirarlo fuori dalle sabbie mobili di una situazione potenzialmente molto pericolosa.
In attesa di capire meglio la portata dello scandalo, i vertici del partito Liberale hanno ridotto al minimo i colloqui con la stampa. Gli effetti di quanto accaduto negli ultimi giorni andranno valutati sul lungo periodo: la leadership di Rasmussen ne uscirà indebolita? Il partito pagherà il conto del suo scivolone?
Gli elettori di sicuro non hanno apprezzato: il partito va giù nei sondaggi (27 per cento) e la fiducia dei danesi nei confronti di Rasmussen ha subito un duro colpo. Ma se sono le avvisaglie di una frana è ancora presto per dirlo. Quel che sembra già certo è che la sinistra è ancora troppo debole per approfittarne. Il blocco conservatore resta una decina di punti avanti nei sondaggi.
In Finlandia nel frattempo il premier Jyrki Katainen ha parlato con il Financial Times di euro e di Europa, rilasciando dichiarazioni importanti: “Non piacciono a nessuno i piani di salvataggio ma finora abbiamo guardato a ciò che è importante per la stabilità dell’eurozona” ha detto. E dunque se sarà necessario rifinanziare i pacchetti di aiuti per Grecia e Portogallo, la Finlandia risponderà presente.
Un esercizio di pragmatismo che contrasta apertamente con quel sentimento antieuropeista che si respira in Finlandia ma che non ha mai sfiorato il primo ministro, il quale duro nei confronti di Bruxelles lo è stato spesso, ma euroscettico proprio no.
Nell’orizzonte politico e personale di Katainen, del resto, Bruxelles non rappresenta solo il luogo dove discutere di soldi e salvataggi per paesi indebitati. Lo stesso Financial Times, infatti, ha indicato proprio il primo ministro finlandese tra i possibili successori di Josè Manuel Barroso alla guida della Commissione europea. Ma sull’argomento il quotidiano britannico non ha strappato neanche una parola al diretto interessato. È in corsa per la poltrona? “Ci sono tanti rumors sull’argomento”, ha risposto Katainen, “io sono concentrato sul mio lavoro di primo ministro”.