“L’orologio” di Carlo Levi e il problema di fondo della società italiana
Il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte […]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello stato non fanno parte […].
Così Carlo Levi fa descrivere a uno dei suoi personaggi (Andrea Valenti, identificabile con Leo Valiani) i rapporti tra stato e società in Italia nel suo romanzo del 1950 L’Orologio. Il racconto riprende e rielabora attraverso la suggestione letteraria quello che per l’autore ha rappresentato il punto di svolta della sua attività politica e della sua vita pubblica: il momento della caduta del governo di Ferruccio Parri (“il Presidente”), avvenuta nel novembre del 1945, quando Levi era direttore de L’Italia Libera, organo del Partito d’Azione, la forza politica che esprimeva Parri alla guida dell’Esecutivo.
Col fallimento di quel tentativo di governo, agli occhi di Levi andava in fumo gran parte dello sforzo compiuto durante la Resistenza, una lotta armata che aveva conseguito, nell’ambito del generale impegno bellico antifascista della Seconda guerra mondiale, il suo scopo immediato con la sconfitta del regime fascista, ma che in realtà avrebbe potuto definitivamente imporre le sue ragioni soltanto sradicando i fattori sociali che del fascismo erano stati la base.
Non bastava, infatti, scalzare il regime per dire di aver ragione del fascismo, né era sufficiente individuarne la causa nella disuguaglianza strutturale del capitalismo maturo e ridiscuterle in profondità, come facevano le forze della sinistra marxista, per comprenderlo appieno. E il Levi dell’Orologio l’aveva pienamente compreso nel suo viaggio, fisico e “dell’anima”, per le strade e i dintorni di Roma, capitale “coloniale” non nei confronti dell’impero ormai perduto, ma perché staccata dal resto del paese e persino da una parte di se stessa: c’era stata una guerra che aveva devastato e sventrato anche alcuni quartieri della città, e che aveva portato a un radicale cambio di regime, eppure gli ingranaggi della gestione del potere continuavano a girare imperterriti, raccogliendo risorse da un paese ridotto all’osso ma devolvendo stipendi a funzionari di fatto illicenziabili di ministeri chiusi e cancellati, che riuscivano ad essere sfruttatori pur non essendo ricchi o addirittura vivendo al limite della sussistenza, e che passavano il loro tempo a scribacchiare brutti racconti e a riempire la propria vita vuota con un’altra inventata.
Il fascismo si era imposto in Italia, ed era rimasto incontrastato alla guida del paese per un ventennio senza dover affrontare resistenze davvero preoccupanti, perché interpretava al meglio una certa idea dei rapporti tra potere statale e società che si era sviluppato come un dato strutturale negli anni successivi all’unificazione nazionale. Chi ha letto le splendide pagine di Roberto Vivarelli sulle ragioni politiche della battaglia culturale liberoscambista di fine Ottocento, recentemente ristampate, ha potuto valutare come in quel periodo non si fosse semplicemente discusso un certo assetto economico e fiscale, ma fossero in gioco nel dibattito due differenti modelli di governo della società. Alla concezione di ascendenza mercantilista incarnata dal modello dell’“autocrazia regolata” bismarckiana, per cui il potere pubblico sarebbe dovuto intervenire direttamente per l’allocazione diretta o indiretta, in forza di legge, delle risorse nei settori più utili da promuovere sulla base di un programma di realizzazione dei propri obiettivi sovrani nell’arena della competizione internazionale, gli economisti liberoscambisti contrapponevano il (certamente idealizzato dalle armonie teoriche) modello britannico di piena applicazione del self government: l’obiettivo dell’agire collettivo era il maggior benessere possibile per il maggior numero di persone; la gestione delle risorse avveniva sulla base della libera allocazione di mercato, e quindi sulla base delle esigenze e delle scelte degli individui; allo stato era riservato il ruolo essenziale e insostituibile di dare certezza al diritto, di promuovere la coscienza civica e di garantire l’accesso alle informazioni e lo sviluppo delle peculiari capacità di ognuno attraverso un ruolo educativo che non si esauriva nelle scuole continuava in ogni elaborazione normativa in cui si promuoveva la correttezza reciproca e la trasparenza tra gli attori della vita associata; la coniugazione tra l’autorità dello stato rappresentativa della maggioranza della popolazione e la libertà degli individui si sarebbe insomma trovata in un potere in grado di orientare idealmente la società che dirigeva attraverso l’arma della persuasione, riducendo a casi estremi la coercizione; il risultato di una competizione regolata e svolta su basi di parità non poteva che essere, nei fatti, una cooperazione verso la comune crescita economica e il comune sviluppo non solo tra gli individui, ma anche tra gli stati.
Nei fatti l’Italia della Sinistra storica, e per certi versi anche quella del cauto riformismo progressista giolittiano, non seppero staccarsi dal modello “prussiano” di interventismo statale incentrato sull’assorbimento di risorse dalla libera gestione degli individui e sul loro reinvestimento in settori ritenuti “strategici”, o sulla protezione di ambiti del mercato considerati bisognosi e/o meritevoli di particolare tutela. Con la piena giustificazione di questo tipo di atteggiamento governativo nell’economia di guerra del 1915-18, i germi autoritari inevitabilmente presenti in un assetto istituzionale di quel tipo poterono trovare pieno sviluppo, cancellando nella sostanza ogni possibile anticorpo all’ascesa del fascismo-regime.
Tuttavia, guardandosi attorno nel momento in cui quest’ultimo era stato spazzato via da un altro evento bellico di eccezionale portata, Levi poteva iniziare a comprendere che le distorsioni delle politiche di intervento statale dei decenni precedenti avevano avuto effetti decisamente più duraturi, capaci di attraversare il fascismo riproponendosi intatti alla sua fine. Di fronte a istituzioni pubbliche che, in sostanza, si arrogavano il diritto di far vivere o morire interi settori della vita economica attraverso lo stanziamento o la razzia di risorse, l’unica possibilità di sopravvivenza era quella di aggregarsi in gruppi di pressione organizzati e condizionare, attraverso le proprie richieste, le scelte di uno stato che nei fatti diventava l’unica camera di incontro, scambio e compensazione tra i vari ambiti della società. L’allocazione delle risorse avveniva così soltanto sulla base della capacità dei gruppi professionali, degli organismi di rappresentanza sociale, persino delle singole famiglie, di farsi rappresentare nella trattativa nella “stanza dei bottoni” e di accaparrarsi tutele e finanziamenti dal potere pubblico, senza alcun riguardo alla qualità della propria attività o alla sua utilità per la vita collettiva.
Nel sempre più inestricabile groviglio di provvedimenti difensivi, esclusivi, di elargizione, di protezione, di chiusura parziale o totale, spesso in conflitto tra loro sviluppati esclusivamente sulla base dei rapporti di forza del momento ma destinati a diventare essi stessi leva per la ridefinizione degli equilibri nel futuro, rapidamente l’Italia cessava di essere una società aperta, una società di individui. Si aveva possibilità di farsi ascoltare, e quindi di partecipare alla redistribuzione di risorse che lo stato assorbiva, solo in quanto parte di un gruppo abbastanza potente da avere voce in capitolo, e per converso questa ragione era sufficiente per garantire tale partecipazione, indipendentemente dal proprio effettivo contributo. Chi si trovava fuori da tale gioco di rappresentanze, non solo avrebbe mantenuto i “privilegiati” che sopravvivevano su questo sistema, ma ne avrebbe anche pagato il costo dettato dall’inefficienza, senza possibilità di rivalsa.
La frattura fondamentale che caratterizzava la società italiana, esce insomma dalle pagine dell’Orologio, è decisamente più complessa di una pura e semplice frattura di classe. E non a caso l’autore trova il giusto riferimento nelle osservazioni da lui prodotte qualche anno prima in un’altra, più nota, sua opera,Cristo si è fermato a Eboli. Narrando lo shock provato da un piemontese, figlio del moderno Settentrione e addirittura di quella Torino che, per strutture produttive, rapporti sociali e apertura culturale, rappresentava tra le due guerre la testa di ponte dell’Italia verso l’Europa più avanzata, Levi aveva guardato all’arcaica società lucana andando oltre la semplice distinzione tra proprietari e proletari, che quantomeno avrebbe sottinteso una dinamicità nel conflitto. Ai contadini, legati alla terra dalla notte dei tempi e destinati ad esserne l’unico motore di produzione quasi senza possibilità di redenzione, si contrapponeva la piccola borghesia di paese, i “luigini” (così chiamati dal nome del più rappresentativo di loro) che dalla proprietà di piccoli fondi agricoli o dall’attaccamento pervicace a qualche piccola prebenda o posto statale, spesso mantenuto con l’inganno o con la connivenza con i potenti di turno, si assicurava una sussistenza non diversa, per qualità, da quella dei contadini, ma che proprio dalla possibilità di continuare a sfruttarne il lavoro senza dare alcun contributo trovava la propria ragion d’essere, la propria distinzione sociale di “signori” rispetto ai “cafoni”.
Ecco: la fine delle speranze di profonda riforma degli assetti sociali promesse dalla Resistenza aveva aperto gli occhi a Levi, e lo aveva aiutato a trovare in tutta l’Italia, nel suo complesso, quegli elementi di arretratezza e di staticità che lo avevano tanto colpito nei mesi di confino a “Gagliano”. E probabilmente, vista l’estensione ormai universale di simili pratiche sociali distorte, nel secondo dopoguerra Levi si sarebbe mostrato meno sicuro che vi fosse vera possibilità di rimedio. Ma forse vale la pena di rileggere la soluzione radicale, per lui l’unica praticabile, alla soluzione dei grandi problemi meridionali abbozzata nella conclusione del Cristo:
Non può essere lo Stato […] a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato. […] L’antistatalismo dei contadini […] [finirà] quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano parte. […] Siamo anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime, nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana, stanno di fronte […]. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto […]. Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi […]. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell’idea di Stato; al concetto d’individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e Stato. L’individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori del quale l’individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo stato.
Ripensare i fondamenti stessi dell’idea di stato e del suo rapporto con l’individuo. Probabilmente, ciò sarà avvenuto nel momento in cui per valutare quanto peso dare alle istanze di qualcuno non ci si dovrà più chiedere di chi è figlio, con quale professore si è laureato, quanti anni ha, con che tipo di contratto lavora. E sarà bene riprendere, quanto prima, il percorso impostato in questa riflessione, perché ancora una volta il sistema di potere che si è sviluppato dopo l’unificazione sta mostrando tutti i suoi limiti, e ancora una volta qualcuno dovrà pagare il conto. Si spera non siano di nuovo i “contadini”.