Altri tempi, la fiction che porta la prostituzione in TV
DISCLAIMER: questo articolo contiene rivelazioni sulla trama di Altri tempi di Marco Turco
Il 13 ed il 14 ottobre è andata in onda su Rai1 Altri tempi, un film-tv targato Marco Turco ispirato alla battaglia della senatrice socialista Lina Merlin per l’abolizione delle case di tolleranza. Il tema, particolarmente delicato, è stato affrontato da un punto di vista non scontato e piuttosto obiettivo, né critico né celebrativo verso l’operato della Merlin. Al contrario, emerge prepotentemente il desiderio di gettare lo sguardo nel mondo della prostituzione dell’Italia fascista e post-fascista e indagare il rapporto della società con la prostituzione e le prostitute cercando di farlo da un punto di vista troppo spesso sottovalutato, ovvero quello delle dirette interessate.
La cosiddetta “prostituzione di Stato” è un fenomeno che ha radici antichissime nella storia dell’uomo: le case di piacere dell’antica Grecia e i lupanari romani sono forse i primi esempi noti e accertati di casa di tolleranza gestita dallo Stato. Saltando al Medioevo, risultano testimonianze di concessioni di patenti per l’apertura e la gestione dei lupanari nel Regno delle Due Sicilie e nella Repubblica di Venezia già a partire dalla prima metà del XV secolo.
Più avanti nel tempo, il Regno di Sardegna organizzò grazie a Cavour una gestione centralizzata e ben codificata del meretricio di stato, estendendo poi i parametri in uso in Piemonte nel resto del Paese al momento dell’unificazione. Nell’Italia unita, era compito del legislatore nazionale operare in materia di bordelli, con risvolti che oggi farebbero sorridere quali la divisione in categorie di prezzo a seconda della classe della casa di tolleranza, la durata media di una prestazione a partire dalla quale fissare il prezzo, gli sconti per particolari categorie di persone o l’adeguamento delle tariffe ai tassi di inflazione.
Con il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (Regio decreto 773/1931), il fascismo entrò a gamba tesa nella legislazione sul mondo della prostituzione, imponendo da un lato rigorosi controlli igienici per le prostitute, dall’altro decretandone la schedatura da parte delle forze di polizia.
Il fascismo ha quindi esasperato il divario sociale tra le prostitute e le cosiddette persone perbene: anche misure socialmente utili per la categoria sono infatti riconducibili al desiderio di non trasformare il meretricio in veicolo di malattie veneree e al desiderio di fornire un servizio di qualità alla clientela.
Per di più, misure come la schedatura servivano letteralmente a tenere separate le prostitute dalle altre donne, impedendo loro di rifarsi una vita una volta troppo anziane per esercitare il mestiere, e arrivando all’effetto psicologico di rendere più accettabile la prostituzione per la società-bene. Imponendo una differenza sociale e invalicabile tra le prostitute ed il resto delle donne, diventava infatti più accettabile persino per le mogli pensare al proprio marito in un bordello, proprio perché lo status della prostituta, marchiata espressamente come oggetto di sfogo delle voglie maschili, rendeva l’atto più accettabile rispetto ad tradimento coniugale con una non-prostituta.
La fiction, che per certi versi lima i particolari più scabrosi della vita delle prostitute della prima metà del ‘900 in Italia e si piega alle esigenze del lieto fine, coglie un importante successo nel rappresentare la mentalità dell’epoca. Di particolare rilevanza è il passaggio in cui la madre adottiva di Anna, figlia della prostituta Maddalena, accetta supinamente le necessità sessuali del marito quando viene disvelata la sua frequentazione occasionale di un bordello, mostrandosi in qualche modo complice del sistema che Maddalena stessa, pur prostituta, ha cercato di combattere.
Si tratta di un messaggio di grande importanza, che coglie l’importante verità storica secondo cui chi ha una posizione di predominio difficilmente la cede in modo volontario, e tacciando di complicità le cosiddette signore perbene nel fenomeno della prostituzione – e dello sfruttamento della prostituzione – le rende corresponsabili, per lo meno per ignavia, della subalternità femminile nella società italiana del tempo.
Subalternità che costituisce in effetti il tema portante dell’opera e che traspare – con sapienza nella scelta delle sceneggiatura ed abilità del cast, quasi tutti femminile – in pressoché tutti i passaggi dell’opera. Si inizia con l’adolescenza di Maddalena, il cui nome è un ammiccamento smaccato al simbolismo biblico e forse la più grande caduta di stile del film, che da ragazzina della media borghesia viene trascinata nella povertà e nell’indigenza da un incendio che spazza via la sua famiglia. Sola e senza sostegno si rivolge ad un amico e cliente del padre, che però abusa di lei e la caccia di casa, pur provvedendole un posto come cameriera presso un’usuraia. Maddalena si scopre incinta, e la sua decisione di tenere il bambino la porta ad essere nuovamente messa alla porta.
Nella società non c’è tuttavia posto per una ragazza madre, e l’unica porta aperta per Maddalena è quella della prostituzione. Incapace di adattarsi alla sua nuova vita, Maddalena non riesce a provvedere al mantenimento della figlia, ed è quindi costretta alla fine a darla in adozione e sparire dalla sua vita. La sequenza di scene che porta a questo evento focale nella vita della protagonista è esemplare, e mostra appieno la serie di concause che trasformano una normale adolescente in un rifiuto della società, concause in cui la volontà di Maddalena risulta totalmente ininfluente, classico vaso di coccio tra vasi di ferro.
Il film passa quindi a descrivere la vita delle case di tolleranza, con excursus dal sapore vagamente didascalico ma che consente di cogliere in maniera piena la vita del tempo, la differenza tra i bordelli di lusso e quelli di infimo ordine, le condizioni igieniche, le tecniche amatorie, le tipologie di clienti. In questa fase avviene l’accettazione del proprio destino da parte di Maddalena, che mette il proprio talento e la propria ambizione al servizio del mestiere che ha dovuto accettare per sopravvivere e che la porta a primeggiare fino a ritagliarsi un posto nella camera da letto dei potenti del Paese e a diventare maîtresse della casa di tolleranza in cui aveva esercitato, il “Raffaello”.
Lì si adopera per creare una casa di piacere modello, una sorta di esperimento improntato al luddismo che dimostra avere successo al punto da far scegliere proprio il “Raffaello” come meta della visita della senatrice Merlin, impegnata nella battaglia che porterà, diversi anni dopo, all’approvazione della legge che porta il suo nome.
L’incontro tra la senatrice Merlin e le prostitute è uno dei punti focali del film, sia dal punto di vista della trama sia negli spunti di riflessione offerti al pubblico: è infatti qui che per la prima volta il castello di carte costituito dal bordello modello di Maddalena crolla nell’impietosa consapevolezza che al di là delle mura delle case di tolleranza le prostitute restano comunque emarginate e schedate, persone senza futuro nel momento in cui non potranno più esercitare il loro mestiere.
Il tema dell’emarginazione torna prepotentemente nella sottotrama della giovanissima Edda, una ragazzina di campagna fuggita da casa e accolta da Maddalena, innamorata di un ufficiale di polizia da cui è riamata ma che la lascerà prima delle nozze per le pressioni della società-bene, che non tollera commistioni tra il mondo normale e quello delle prostitute. Edda, sconvolta, sceglierà il suicidio – unica strada per sfuggire ad un destino schiacciante e ineluttabile – ed è proprio questo atto a convincere Maddalena che una casa di piacere resta sempre e comunque una prigione da cui non si può scappare, un posto che non garantisce alcun futuro alle donne che vi lavorano, perché il problema di fondo è la società ed il suo rapporto con la prostituzione.
Il finale del film è maggiormente concentrato sulla storia personale di Maddalena e della figlia e aggiunge forse poco al tema sociale e politico della prostituzione, ma spiccano i riferimenti alla vita intrapresa dalle ragazze del “Raffaello” dopo la sua chiusura e dopo la dipartita di Maddalena: chi trova rifugio nella Chiesa, chi nelle opere di carità, chi continua ad esercitare in strada, in condizioni nettamente più disagiate e incontrollate.
Ed è proprio in questa visione contradditoria delle case di tolleranza che trova il suo maggior punto di interesse la fiction, che offre interessanti spunti di riflessione anche sul confronto tra l’Italia degli anni ’50 e quella attuale, nonché sull’attualità della Legge Merlin (75/1958); le case di tolleranza rappresentavano un tipo di prostituzione – e relativo sfruttamento delle ragazze – accettata e integrata nella società italiana, al contrario della prostituzione in strada tipicamente deprecata in quanto considerata di infimo livello e quindi degradante per l’uomo.
L’attacco della Merlin alle case di tolleranza era mirato a distruggere questo rapporto di connivenza con il mondo della prostituzione, rapporto alla lunga distruttivo per le meretrici bollate a vita per la loro attività e spesso soggette, malgrado i controlli, a malattie che ne accorciavano sensibilmente l’aspettativa di vita rispetto al resto della popolazione italiana.
Il film invita a contestualizzare la battaglia di Lina Merlin da molteplici punti di vista: gli effetti della legge, la sua adeguatezza alla situazione odierna, e persino, fattore ancora più importante, l’aderenza dell’impianto legislativo rispetto alla battaglia politica sociale; in questo, ancora più che nelle ottime interpretazioni del cast e nel plot tutto sommato gradevole, risiede il valore del lavoro di Marco Turco, un felice stimolo al libero pensiero in una RAI in cui la qualità tende sempre di più a latitare.