Reggie Miller, il “killer” di Indiana
Esiste una regola non scritta nella NBA che dice che i giocatori diventano leggendari solo dopo gare o episodi indimenticabili giocate nei play off. Nel 1994, al Madison Square Garden di New York, i Knicks padroni di casa, favoriti, brutti (per caso), cattivi (per scelta) e ancora imbattuti tra le mura amiche, stanno conducendo agevolmente in porto la quinta partita della serie con un margine che durante il quarto periodo sfiora anche i 20 punti. Di fronte a loro gli Indiana Pacers, alla loro prima finale di conference, quella che regala l’accesso alla finalissima, e per la verità anche al loro primo anno senza essere buttati fuori al primo turno. Tra di loro uno smilzo di poco più di due metri e neanche novanta chili, sulle spalle il numero 31, nonostante il punteggio ci crede. Segna un paio di tiri da tre e un canestro da due, e ad ogni tiro segnato continua a far lavorare la lingua in maniera provocatoria. In prima fila il regista Spike Lee, tifosissimo di New York, si alza in piedi e inizia a rispondergli a tono. Lo smilzo accetta la sfida e va, letteralmente, in trance agonistica. Dopo il quinto canestro da tre di un irreale periodo in cui metterà a segno 25 punti in 12 minuti, lo smilzo si volta verso la prima fila e si porta le mani al collo nel gesto tipico del gergo americano per dire: adesso strozzati (“stai zitto” non renderebbe neanche lontanamente l’idea). I Knicks perdono la partita, anche se vinceranno la serie in sette gare, ma quella sera nasce la leggenda di Reggie Miller.
Reginald Wayne Miller nasce in California, a Riverside, nel 1965, e gli ostacoli fanno parte fin da piccolo dell’intreccio della sua storia. Si parte col botto. Sì perché se ancora non hai imparato a camminare e già i medici, per via del fisico gracile, vorrebbero fratturarti le gambe in modo da poterle sistemare chirurgicamente, la tua strada nella vita è un pochino in salita, diciamo così. La mamma però risponde picche, e il piccolo Reggie supera non solo lo scetticismo dei dottori, ma anche le aspettative più ottimistiche della famiglia, diventando un ottimo giocatore già alla scuola superiore. Per uno che in teoria avrebbe faticato anche solo a camminare correttamente basterebbe questo per diventare un idolo, almeno tra le mura domestiche. Tutto vero, se uno non si ritrovasse alla stessa tavola domenicale la miglior giocatrice di pallacanestro d’America, la sorella Cheryl. E non stiamo parlando di migliore tra le donne, stiamo parlando di migliore.. Uomini compresi. Anno di grazia 1986. Fonte emerita: Sport Illustrated. Capita così che Reggie torni a casa esaltato da una prestazione da 39 punti e in risposta si senta dire dal padre: “Non male. Tua sorella invece oggi 105.” Sì, centocinque. Amen.
Ci sarebbe materiale sufficiente per andare facilmente in analisi, ma il nostro è di tempra notevole, ed essere etichettato come “il fratello di Cheryl” (due titoli NCAA e un oro olimpico, tra le altre cose) non lo smuove dai suoi obiettivi. Come non lo smuove il fatto di essere solo la terza preferenza a cui assegnare una borsa di studio per il college in cui va a giocare, la celebre UCLA che ha sede a Los Angeles. E non lo smuove lo scetticismo dei tifosi di Indiana, che fischiano sonoramente la sua chiamata al numero 11 del draft del 1987 ritenendola troppo alta, e pensando ad una scelta puramente di marketing, legata ovviamente al nome della sorella. Oh in Indiana, la patria dei Pacers, la pallacanestro è una vera e propria religione, una sorta di undicesimo comandamento, qualcosa reso perfettamente dal film “Hoosiers” (terribilmente tradotto in italiano con “Colpo vincente”), con Gene Hackman. Se ce la fai lì, ce l’hai fatta per davvero, e Reggie ce la fa.
Si afferma nel giro di tre anni come grande realizzatore, specialista nel tiro da tre, ma soprattutto come “clutch shooter”, ovvero quel giocatore a cui vuoi affidare i tiri chiave della partita nei momenti decisivi. Diventa talmente affidabile quando la palla scotta che a fine carriera in molti lo mettono (per questa specialità) addirittura alla pari con Michael Jordan, non un onore da poco, soprannominandolo “Killer Miller” per il suo sangue freddo nei momenti decisivi.
Onore che si è consolidato soprattutto (ma non solo) nelle sfide di play off contro New York, che dal 94 al 2000 diventano quasi un’abitudine e accendono una grande rivalità tra le due formazioni, anche per l’enorme differenza sociale e culturale tra la ruralità dell’Indiana e la mondanità della Grande Mela. Banalizziamo un po’, ma ai tempi i giornali di New York parlavano di “Knicks vs Hicks”, e non in toni propriamente ironici. Se google translate non vi aiuta, considerate che Hicks sta per qualcosa come “bifolchi”, in tono ampiamente dispregiativo. Solo in America.. Solo a New York.. Solo per farvi capire il clima di quelle sfide, e apparecchiare la tavola per il prossimo aneddoto.
Altro momento leggendario. Peschiamo il più bello del lotto, come i bravi venditori.
Gara1, sempre al Madison. Stavolta mancano 18 secondi e Indiana è sotto di sei. Sulla rimessa in attacco Reggie segna da tre. Il pressing sulla rimessa manda fuori giri gli avversari. Miller recupera di nuovo palla, ma anziché tirare si gira, palleggia fuori dalla linea dei tre punti e spara. Solo rete. New York, completamente nel pallone, sbaglia il tiro seguente e commette fallo sul rimbalzo dello stesso numero 31, che con otto punti in dodici secondi riesce da solo a ribaltare una delle più clamorose partite che si possano ricordare. Indiana vincerà partita e serie, ma perderà in sette gare contro Orlando per accedere alla finalissima.
La finale NBA per Miller resterà in effetti nel corso degli anni un vero e proprio tabù, se è vero che pur avendo buone o addirittura ottime squadre riuscirà ad accedervi una sola volta nel 2000, perdendo in sei gare contro la miglior versione dei Lakers targati Kobe e Shaq. Un peccato per un giocatore e una squadra di grandissimo livello, ma un segno della grandissima competitività che regnava nella lega tra gli anni 80 e 2000.
Il buon Reggie si inserisce nell’elenco dei grandi del gioco che non hanno mai vinto quindi un titolo NBA, ma vanta comunque un oro mondiale ed uno olimpico, e resterà famoso nella storia per le sue giocate e i suoi tiri allo scadere, che anche alla non più tenera età di 37 anni infilava ancora con grande dedizione (2002, in gara 5 contro i New Jersey Nets, DUE volte. Mandò la gara al primo e poi al secondo supplementare).
Mai apprezzato per la simpatia in campo, come potrebbero raccontarvi Spike Lee e qualche altro centinaio di avversari vittime del suo continuo parlare provocatorio durante le partite, e come lui stesso serenamente ammetteva, se è vero che la sua bibliografia si intitola “I love being the enemy” (“Amo essere il nemico”). Altrettanto stimato e apprezzato fuori, tanto che lo stesso Lee dopo i fattacci narrati all’inizio lo volle per uno spot che il regista stava realizzando, e i due divennero anche amici. Attualmente stimato commentatore televisivo, chiaramente di basket NBA, la sua gioia e il risultato più grande è però probabilmente sapere che oggi, quando la gente incontra sua sorella per strada, le chieda “Ehi, ma tu sei la sorella di Reggie!?!”.
Piccole grandi soddisfazioni.
Marco Minozzi