Il progetto Predict cerca di fare luce sui possibili rischi di nuove pandemie provocaate dall’azione umana sull’ambiente. I cambiamenti climatici e il disboscamento favoriscono il propagarsi di nuovi virus. Dato il costante aumento demografico è oggi necessario riuscire a prevedere nuovi possibili focolai prima che questi si realizzino.
All’interno di un progetto chiamato “Predict”iniziato nel 2012, finanziato dall’Agenzia per lo sviluppo degli Stati Uniti, squadre di biologi, medici, epidemiologi e veterinari stanno cercando di prevedere i possibili effetti che il cambiamento climatico e dell’ecosistema potrebbero provocare sulla salute dell’uomo.
Le modificazioni delle leggi che reggono l’ecosistema non sono solo alla base dei cambiamenti climatici, dello scioglimento dei ghiacci e del conseguente innalzamento delle acque, ma a ben vedere investono anche ciò che gli esperti definiscono “ecologia della malattia”, ossia la relazione esistente tra il cambiamento dell’ecosistema e la genesi delle pandemie.
La storia insegna infatti che la diffusione tra gli umani di malattie, infezioni e pestilenze siano sempre nate dall’azione dell’uomo sull’ambiente, nel passato con la Peste e la Malaria, così come nel presente con l’AIDS, la cui propagazione tra gli umani si deve alla caccia di interi branchi di scimpazè da parte dei coloni dell’Africa subtropicale nel XX secolo, con cui poi entrarono nefastamente in contatto.
Malattie infettive come l’AIDS, Ebola, West Nile, la SARS,la malattia di Lyme e altre centinaia che si sono verificate nel corso degli ultimi decenni, non sono casuali: rappresentano il risultato di ciò che l’uomo fa alla natura.
Oggi la crescita della densità demografica mondiale, la rapidità degli spostamenti e la costante azione dell’uomo sull’ambiente e l’ecosistema, rendono il rischio di una pandemia su scala mondiale quasi una certezza a cui si deve porre da subito un rimedio.
A tale scopo dagli scienziati coinvolti nel progetto sono stati raccolti e archiviati campioni di saliva, sangue, e patrimonio genetico di molte specie animali che vivono allo stato selvatico o sono in via d’estinzione in modo da identificare nuovi possibili virus capaci di diffondersi tra gli umani; oggi, infatti, solo l’1% dei virus animali è noto all’uomo.
Al progetto appartiene anche lo studio degli effetti derivati dal disboscamento delle grandi foreste pluviali; è chiaro a tutti, infatti, che la scomparsa di grandi aree di vegetazione incrementa il pericolo di nuove pandemie che potrebbero, in futuro, essere difficilmente ostacolate.
“Con l’invasione nella foresta si può prevedere dove la prossima malattia potrà emergere,” dice Peter Daszak,ecologista e presidente di EcoHealth, “Quindi stiamo andando nei villaggi, stiamo andando in posti dove le mine sono state appena aperte, aree dove le strade si stanno costruendo. Stiamo andando a parlare con le persone che vivono all’interno di queste zone per dirgli ‘quello che stai facendo è potenzialmente un rischio’ “.
Una ricerca dimostra infatti come il disboscamento del solo 4% della foresta Amazzonica comporti in quella zona l’aumento della trasmissione della Malaria del 50% ,ciò perchè a beneficiarne è sopratutto la zanzara veicolo di propagazione della malattia.
Con il disboscamento, infatti, il fastidioso insetto accresce il proprio adattamento all’ambiente, raggiungendo il giusto mix di luce solare e quantità d’acqua, elementi che ne favoriscono la riproduzione e la conservazione.
IL problema è inoltre aggravato dalla gestione dei grandi allevamenti di bestiame, sopratutto nei paesi poveri, che hanno già mostrato in passato la propria responsabilità nella propagazione e diffusione di nuove malattie nate dalle cattive condizioni con le quali sono tenuti gli animali.
Uno studio di inizio luglio 2012 dell’International Livestock Research Institute conferma, infatti, che più di 2 milioni di persone al mondo muoiono ogni anno a causa di malattie contratte da animali selvatici e domestici.
Due sono oggi i virus che catturano l’attenzione della comunità internazionale: il virus Nipah, identificato in Asia Minore e il virus Hendra, scoperto per la prima volta nel 1994 in Australia.
“ Le reservoir” naturale del virus Hendra, responsabile di una malattia che si diffonde sia negli animali che negli esseri umani e colpisce prevalente le vie respiratorie e nervose, sono le Volpi Volanti, un genere di pipistrello della famiglia dei Pteropus.
A preoccupare la comunità internazionale è la rapidità con la quale il virus Hendra si trasmette dagli animali all’uomo.
Ad oggi si sono verificati 3 focolai che non lasciamo presagire niente di buono, dato che tra l’altro non è stato ancora trovato un vaccino: nel 1994 e nel 1995, in Australia, quando persero la vita 3 persone, e sopratutto nel 1999 quando l’area interessata riguardò tanto il continente australiano, quanto altri luoghi come la Malesia.
Nella pandemia nel 1999 furono infettate 276 persone e 106 di queste morirono a causa dell’infezione, altre riportarono danni permanenti sopratutto neurologici.
Da allora si sono verificati altri 12 piccoli focolai che confermano, tuttavia, la tendenza preoccupante del virus di adattarsi ad altre aree del Globo e ad attaccare con rapidità l’organismo umano; nuovi focolai sono sorti, infatti, in Asia meridionale.
La chiave per prevedere e prevenire la prossima pandemia, dicono gli esperti, è capire ciò che gli stessi chiamano “effetti protettivi” della natura incontaminata.
“Qualsiasi malattia emergente degli ultimi 30 o 40 anni è avvenuta a seguito di uno sconfinamento dell’uomo all’interno delle terre selvagge e i cambiamenti demografici”, afferma Peter Daszak.
Il miglior modo per evitare una prossima epidemia negli esseri umani, dicono gli specialisti, è rappresentato da ciò che gli stessi chiamano One Health Initiative, un programma mondiale, che coinvolge più di 600 scienziati e altri professionisti, che promuove l’idea secondo la quale salute umana, animale ed ecologica sono inestricabilmente collegate tra loro e devono essere studiate e gestite comparativamente.
“Non si tratta di mantenere incontaminata una foresta priva di persone“, dice Simon Anthony, virologo molecolare presso il Centro per l’infezione e immunità della Columbia University Mailman School of Public Health. “E ‘imparare a fare le cose in modo sostenibile. Se è possibile ottenere una maniglia su ciò che spinge l’emergere di una malattia, allora si può imparare a modificare gli ambienti in modo sostenibile”.
Se non riusciamo a capire e a prenderci cura del mondo naturale, ciò potrà causare imprevedibili conseguenze dei vari sistemi che lo compongono, e ritorcersi ineluttabilmente contro noi stessi in forme che ancora conosciamo poco.
http://www.nytimes.com/2012/07/15/sunday-review/the-ecology-