Il capolavoro di Luchino Visconti, tratto dal romanzo omonimo di Tomasi di Lampedusa, tornerà nelle sale italiane a partire dal 28 ottobre. Ma questa volta con qualcosa in più. Grazie alla Cineteca di Bologna in collaborazione con The Film Foundation di Martin Scorsese infatti, il film verrà proiettato completamente restaurato – per riconsegnarlo al vecchio splendore – e verrà accompagnato da un documentario di tredici minuti realizzato da Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, I due gattopardi, che contiene le scene tagliate a suo tempo dallo stesso Visconti per la presentazione a Cannes (e poi mai più reinserite), oltre a tracciare lo schema delle complesse vicende che portarono alla pubblicazione del film.
La dovuta attenzione per una pellicola che, allora come adesso, dà vita in modo impeccabile uno dei romanzi più letti e apprezzati della nostra letteratura.
Sempre dal punto di vista del principe Fabrizio di Salina (Alain Delon sul grande schermo) si parla di un’aristocrazia in declino che deve fare i conti con la sfacciataggine della borghesia in ascesa, del Risorgimento italiano ma soprattutto delle sue contraddizioni. Una contraddizione impersonata dal nipote prediletto da Don Fabrizio, Tancredi, che si affianca ai garibaldini ma allo stesso tempo pretende di difendere gli interessi della sua classe sociale: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, dice. Non è un esercizio di retorica, è il riassunto dell’inettitudine di fondo della Sicilia, mascherata da traballanti ideali, di fronte alla rinnovata situazione italiana.
E Don Fabrizio, che ci appare spaesato e sembra non potersi mai abituare al cambiamento dopo aver vissuto un’intera vita da signore, verso la fine del romanzo comincia a meditare e fare chiarezza sulla sua esistenza, durante un grandioso ballo a cui partecipa. Scena cui Visconti diede, dimostrando una puntuale sensibilità, spicco assoluto: il ballo occupa circa un terzo del film e, grazie all’ambientazione spettacolare si guadagnò il Nastro d’Argento alla migliore scenografia.
Ma non fu certo un riconoscimento ottenuto con facilità. Visconti dimostrò una cura maniacale per la scena, girata nel Palazzo Gangi di Palermo: molte candele (che dovevano essere accese ad ogni sessione di riprese) e poca luce elettrica, fiori arrivati in aereo quotidianamente da San Remo, decine di comparse con guanti rigorosamente immacolati. tutto per rendere quella vitalità che in realtà a Don Fabrizio fa pensare solo alla morte, sua, della Sicilia, di una classe sociale, di un mondo di “leoni e gattopardi” sostituiti da “sciacalli e iene”.
Per Visconti questa è la scena finale, mentre nel romanzo si va ben oltre, fino alla morte del principe. Ma chissà quali scene aveva deciso di tagliare, chissà perché. 50 anni dopo possiamo riscoprirlo e possiamo guardare, con occhi diversi, un grande film sul grande schermo.
Cecilia Lazzareschi