Sono preoccupanti, per non dire allarmanti, le reazioni che si registrano in tutto il mondo a seguito delle conferme – perché non è seriamente credibile che si tratti di autentiche “scoperte” – circal’attività di sistematico spionaggio informatico svolta dagli Usa negli ultimi anni.
Il Brasile ha già avviato l’iter per il varo di una nuova disciplina normativa che mira addirittura ad imporre a tutti i fornitori di servizi online [Google, Facebook, Twitter ecc.] di utilizzare esclusivamente sistemi e datacenter fisicamente collocati nel Paese. La notizia ha tanto allarmato i vertici del “re” dei socialnetwork che suoi emissari sono immediatamente volati a Brasilia nel tentativo – sin qui vano – di “barattare” la decisione del Governo brasiliano con preziosi consigli per l’utilizzo di Facebook in ambito politico-elettorale.
Ma le reazioni – per la verità un po’ scomposte ed istintive – al datagate non si sono fatte attendere neppure in Europa dove Deutsche Telekom ha avviato una massiccia campagna di comunicazione e relazioni istituzionali con la dichiarata intenzione di “nazionalizzare” il traffico e la conservazione dei dati personali degli utenti tedeschi sottraendoli così – o almeno questo è l’intento dichiarato – al passaggio attraverso sistemi e datacenter situati al di fuori dei confini tedeschi.
Già ad agosto – riferisce Reuiters in un’agenzia – Deutsche Telekom aveva lanciato “E-mail made in Germany”, un servizio di posta elettronica basato sulla crittografia di tutti i messaggi inviati tra gli utenti e dal loro istradamento esclusivamente attraverso server tedeschi.
L’idea, o forse l’ambizione, di Deutsche Telekom non è diversa da quella del Governo di Brasilia: obbligare i gestori di servizi online ad utilizzare sistemi e datacenter siti esclusivamente in Germania anziché nel resto del mondo come avviene attualmente.
I responsabili privacy della Telco tedesca, al riguardo, provano ad evidenziare l’assurdità – che è, tuttavia, la normalità per chiunque mastichi di Rete – di pensare che un messaggio scambiato in chat su Facebook tra due cittadini tedeschi per arrivare dal primo al secondo, residenti a poche centinaia di chilometri, debba “percorrerne” migliaia e rimbalzare su server siti in North Caroline, Oregon o Svezia.
“That’s Internet”, verrebbe da rispondere con una battuta.
Ma guai a minimizzare la questione che è straordinariamente seria ed impone una presa di posizione forte in termini di governance della Rete da parte della comunità internazionale e dei governi dei singoli Paesi. Il datagate e le sue derive politico-mediatiche, infatti, minacciano di divenire la causa o l’alibi per l’avvio di un drammatico processo di balcanizzazione di Internet.
A prescindere da ogni considerazione di carattere economico e tecnico che pure sconsiglierebbe – o addirittura renderebbe inattuabile – la realizzazione di tale processo il punto è che la nazionalizzazione dei datacenter è una risposta miope, inutile ed inefficace dinanzi alle tentazioni spionistiche di questo o quel soggetto.
Tanto per cominciare, infatti, non v’è ragione di ritenere che gli “spioni” vengano sempre dall’estero e, in effetti – anche se voler rinvangare il ricordo del nostro “Caso Telecom” – proprio Deutsche Telekom, qualche anno fa, fu investita e travolta da uno scandalo che portò in carcere uno dei suoi manager proprio per aver spiato manager e consulenti della stessa Telekom.
Nell’era del cloud e delle nuvole che Jeremy Rifkin ha già definito l’era dell’accesso, peraltro, non serve avere un datacenter sul proprio territorio per guardarci dentro ma basta una user id e una password o, più semplicemente, un nuovo Snowden.
Ma il punto è un altro.
Il punto è che prima Wikileaks e poi il Datagate di Snowden e le dozzine di altri piccoli e grandi datagate meno noti al grande pubblico dovrebbero ormai aver dimostrato al mondo intero che per rendere sostenibile il futuro – nella politica interna come in quella internazionale – occorre ripensare radicalmente il rapporto tra pubblico e segreto ed iniziare a pensare che l’unico reale antidoto dinanzi a certe minacce è la trasparenza. Solo la trasparenza spunta le armi a chi voglia impossessarsi di piccoli e grandi segreti, svuotandoli di valore e significato.
Nessuno – o quasi nessuno – dei cablo diffusi in maniera “pirata” attraverso Wikileaks conteneva informazioni tanto destabilizzanti da non poter essere gestite – in maniera trasparente – dalla politica interna e dalla diplomazia internazionale mentre aver preteso di gestirle in modo “classificato e confidenziale” nell’era di Internet ha creato, per tanti, straordinari imbarazzi.
I segreti di Stato – nella politica interna ed in quella internazionale – vanno riperimetrati e ridefiniti. La regola – non solo per difenderci davvero da altri datagate ma anche e soprattutto per una questione di democrazia – deve diventare quella della trasparenza e il segreto deve rappresentare l’eccezione.
Le comunità nazionali ed internazionali più trasparenti sono le più sicure come insegna, nel suo piccolo, la storia del software open source, più sicuro – in una certa misura e non certo in termini assoluti – perché esposto alla verifica costante della comunità internazionale.