Dal Lingotto alla Leopolda: sei anni dopo. “Fare un’Italia nuova. E’ questa la ragione, la missione, il senso del Partito democratico”, annunciava Walter Veltroni nel giugno 2007, candidato segretario del nascente Pd. È un passaggio del celebre “Discorso del Lingotto”, manifesto della sinistra d’inizio secolo.
Impegno puntualmente disatteso dopo i tanti errori inanellati dalla classe dirigente del partito, non più perno di una fattiva alleanza di governo ma simbolo delle divisioni fratricide della politica italiana: un’Italia vecchia, già vista.
A sei anni di distanza da quell’esordio veltroniano, il Partito democratico ha dimenticato – in maniera seriale – d’interpellare i circoli e i suoi militanti, dovendo fare i conti anche con il calo d’iscritti e il sospetto raddoppio del numero delle tessere in zona Congresso. A Torino – sede del sogno progressista – in un solo anno, gli iscritti sono lievitati da 10 a 25 mila. Coincidenze che lasciano fantasticare anche i più ingenui.
Il progetto di un partito di stampo ulivista e fieramente nuovo, compagno di strada dei movimenti social-liberaldemocratici europei e direttamente ispirato agli omonimi statunitensi “nasce, in forma nuova, un partito nuovo – diceva l’ex sindaco di Roma –. Nasce consentendo a chiunque creda in questo progetto di iscriversi, naturalmente e direttamente, e di candidarsi. Associazioni e gruppi, comitati e movimenti, singole persone potranno, nello stesso momento, formare un nuovo partito e decidere gli organi dirigenti e il leader nazionale. E’ un fatto mai accaduto prima. E’ stato sempre più facile che nuovi partiti nascessero da scissioni o da proiezioni personali di leader carismatici”.
Quest’ultima mossa opportunistica è stata accantonata con coraggio e lungimiranza dall’erede del sogno veltroniano – ma non andate a dirglielo – Matteo Renzi, ex rottamatore e probabile segretario del Pd versione larghe intese. Oggi, durante la chiusura dei lavori alla Leopolda – assise di lingottiana memoria – il sindaco di Firenze ha attaccato i suoi detrattori: “La sinistra che non cambia si chiama destra. Dicono che se non parlo degli operai non sono di sinistra: sei di sinistra se c’è un posto di lavoro in più non in meno, la sinistra che non cambia non è sinistra, ma è la destra, la sinistra che ha paura del domani non è una sinistra interessante”.
Le parole risuonate nei locali della stazione Leopolda presentano una nuova intesa davvero gradita all’elettorato di sinistra – rispetto a quella col Pdl-FI – tra il giovane rampante amministratore e il novello scrittore in pensione dalla politica, che qualche tempo fa sarebbe stata impossibile. Il Pd, dalla Leopolda, si avvia verso la strada della modernità che avrebbe dovuto imboccare il giorno della sua nascita: “Contenuti, idee e programmi di Renzi sono interessanti, ci vedo sintonia con l’ispirazione originaria del Pd, quella del Lingotto che ci portò al 34%, quella che condivido”, ha detto il padre nobile defenestrato dall’ala più intransigente di un partito mai nato, anzi abortito.
“Penso che spetterà al Partito democratico presentare in Parlamento una organica legge per la riforma degli istituti della politica. Una legge per la politica. Per favorire il carattere necessariamente lieve e ambizioso che la politica moderna deve assumere”, diceva Veltroni a Torino, dichiarazione che combacia con l’appello finale di Renzi alla Leopolda di Firenze: “Se per caso ci capita di vincere le primarie, il primo punto di riferimento, è che noi saremo i custodi del bicameralismo perfetto. Via il Senato, via alla Camera delle autonomie. Avremo la metà dei parlamentari e agli italiani piacerà”. Così come agli iscritti e agli elettori di una sinistra che non ha bisogno d’inserire un “centro” come prefisso.
La distanza tra il Lingotto e la Leopolda è ormai pari a zero, sempre che la classe dirigente del Pd ascolti il suo popolo, quello dell’inversione di rotta e non soltanto dello show delle primarie.