La minaccia degli islamisti
Il passaggio di confine siriano di Al-Yaarubia, lungo la frontiera con l’Iraq è stato conquistato Sabato dalle milizie curde, a seguito degli scontri che per tre giorni hanno contrapposto i militanti curdi ai ribelli affiliati ad Al-Qaeda. Ligi ad una consueta subordinazione politica e sociale, per diverso tempo i curdi siriani hanno preferito non assumere un ruolo attivo nella guerra civile tuttora in corso.
Tuttavia, l’ingresso nel movimento di opposizione è stata una scelta che la medesima comunità curda ha salutato positivamente, ma che nel frattempo ha contribuito ad inasprire le condizioni di insicurezza di chi vive nel Nord-Est del Paese, a seguito degli scontri frequenti con i guerriglieri jihadisti.
Il valico che i curdi hanno occupato nell’ultima settimana si trovava nelle mani degli islamisti da Marzo, dopo essere stato sottratto al controllo delle forze lealiste. L’elevato rischio di azioni armate o rappresaglie ha indotto il governo di Baghdad a presidiare il confine con la limitrofa Siria, nel tentativo di immunizzare il territorio iracheno dalle violenze di matrice etnica e religiosa.
In una Siria infiammata dalla guerra civile, l’etnia curda – la più consistente del Paese -supera a stento il 10% della popolazione; ma è quanto basta perché sia ritenuta responsabile di avere aggravato la frammentazione dell’opposizione. Ciò nondimeno, va da sé che le esigenze attuali della Siria non possano considerarsi disgiuntamente dalle rivendicazioni del Kurdistan occidentale, a meno che non si scelga di ignorare tutti i cittadini siriani che appartengono a minoranze etniche.
Lo Stato che non esiste
All’ombra delle vicende politiche che scuotono la Siria, l’ascesa dell’etnia curda ridesta l’attenzione della società internazionale, spezzando un silenzio durato anni ed irrompendo sulla vita monotona di due milioni e mezzo di persone, che da novant’anni vivono ai margini della società.
Nel 1923 il Kurdistan veniva frantumato in quattro parti: villaggi divisi, famiglie smembrate sarebbero stati solo il preludio dell’oppressione politica e culturale che ha tracciato l’esistenza di intere generazioni. Divenendo il bersaglio costante di tendenze politiche autoritarie, il popolo curdo pagava il prezzo imposto a coloro che appartenevano ad una minoranza dotata di una lingua propria e di un’ incidenza demografica irrisoria.
Oggi il Kurdistan non è uno Stato indipendente, ma solo una Nazione adagiata sui contorni geografici dell’Iraq e della Turchia, dell’Iran e della Siria. Tuttavia, alle umilianti discriminazioni che la Siria ha imposto dagli anni Sessanta agli abitanti del Kurdistan occidentale non ha fatto seguito un costante monitoraggio internazionale, come è accaduto ad esempio in Turchia o in Iraq.
I curdi siriani sanno bene che la difesa della propria dignità culturale non è esente da rischi; la caparbietà con cui lottano assieme alla coalizione nazionale, nonostante le divergenze ideologiche, ha consentito loro di assumere il controllo dei maggiori insediamenti curdi lungo il confine con la Turchia e l’Iraq, avviando dei programmi di promozione della lingua e della cultura curda.
Sulla scorta di una semi-indipendenza, il Kurdistan occidentale continua a battersi per il riconoscimento dei diritti civili e politici, traendo ispirazione dall’autonomia che il Kurdistan iracheno ha iniziato a conoscere nell’era post Saddam Hussein. Pur costituendo una fetta esigua della popolazione, proprio i curdi sono oggi l’emblema della catastrofe in cui rotolano le minoranze etniche in Siria. Ancora distante dalla realtà dei fatti, un punto d’arresto al dramma quotidiano vissuto dai civili – vittime di abusi, pulizia etnica e deportazioni – sembra potersi collocare per il momento solo sul piano ideale della democrazia pluralista.
Democrazia e decentralizzazione ai primi posti
La disponibilità ad agire anche militarmente per difendere i propri insediamenti ha aperto una breccia nel regime di segregazione che per lungo tempo ha negato ai curdi di Siria persino il diritto alla naturalizzazione. Pur discostandosi dalle intenzioni proclamate, il Partito dell’Unione Democratica curda interpreta l’intervento armato contro gli jihadisti come una scelta strategica – anche se magari sarà solo illusoria – capace di accelerare la mobilitazione verso una società democratica e pluralista nel Kurdistan occidentale prima e in tutta la regione siriana poi. In realtà, al di là di scelte ideali, il panorama politico curdo è tutt’altro che unitario.
Oltre alla presenza di chi si sente siriano e rivendica il solo diritto all’autodeterminazione, non possono sottovalutarsi le pressioni che inneggiano alla costituzione di una regione autonoma, ad immagine e somiglianza del Kurdistan iracheno.
All’ombra di un popolo che non temporeggia nell’inerzia si staglia la diffidenza del Governo di Ankara, timoroso che un movimento armato curdo investa la vicina Turchia ed anzi costituisca un avallo per le azioni dimostrative di matrice curda che da anni si succedono ad Ankara, Istanbul e nelle altre piazze del Paese.
Se si ammettesse – secondo i presagi della Turchia – che l’antagonismo tra curdi e il resto della coalizione nazionale siriana fosse tale da risucchiare la Siria nel vortice della disintegrazione, non si terrebbe in debito conto la modesta influenza politica e militare di una minoranza che non potrebbe certo determinare l’esito del conflitto.
Ipotesi più verosimile è invece che i curdi siriani sentano l’esigenza di convivere serenamente con la maggioranza araba e con le altre etnie che compongono il tessuto multietnico del Paese. Di conseguenza, tanto il dissenso verso il Presidente Al-Assad, quanto gli scontri con i gruppi di estrazione islamista rispecchierebbero la fisionomia di una libertà più vicina alla decentralizzazione del potere che all’indipendenza politica.