Datagate. Gli ultimi giorni in Scandinavia viaggiano a metà strada tra politica interna e politica estera. Capita così che in Islanda la popolazione sia sempre più diffidente nei confronti della propria classe politica, mentre la Groenlandia apre le porte alle grandi compagnie minerarie del pianeta.
In Finlandia invece succede che si provi a scorgere la luce in fondo al tunnel delle difficoltà economiche, mentre in Danimarca gli elettori di centrodestra voltano le spalle all’ex premier liberale Rasmussen. E poi c’è lo scandalo datagate.
Cominciamo dall’Islanda. Una ricerca condotta dall’istituto MMR ci racconta di un paese che non si fida. Le banche sono quelle messe peggio: circa il 90 per cento degli islandesi dice di non avere fiducia negli istituti di credito. La crisi del settore bancario che nel 2008 ha trascinato l’isola in un vortice di disoccupazione, inflazione e svalutazione pesa ancora nei giudizi della gente. L’unica istituzione che negli anni ha retto nell’opinione generale è la polizia, che raccoglie quasi l’80 per cento del gradimento tra la popolazione.
E i politici? Male. Gli islandesi di loro non si fidano. Che si parli di maggioranza o di opposizione non fa differenza: solo il 16 per cento dice di nutrice fiducia nei confronti del Parlamento.
Non bastasse, ci sono anche i numeri diffusi dalla Gallup: il 67 per cento degli islandesi è convinto che la corruzione sia un problema diffuso negli apparati di governo.
L’argomento ‘fiducia’ tiene banco anche in Finlandia. Secondo un sondaggio commissionato dall’Yle, la gente pensa che l’economia finlandese stia per uscire dalla crisi. Un terzo teme una nuova recessione: erano due terzi l’anno scorso.
Gli esperti di cose economiche però sono meno ottimisti: i segnali sarebbero ancora troppo fragili per affermare che Helsinki sta per voltare pagina. I problemi, secondo gli analisti, sono sempre gli stessi: la debolezza nel quadro economico internazionale, dall’Europa agli Stati Uniti.
In Groenlandia, invece, proprio la scorsa settimana è stato votato un provvedimento che potrebbe cambiare il futuro della grande isola nel nord del mondo: il Parlamento di Nuuk ha infatti deciso per l’abolizione del bando che dal 1988 impediva l’estrazione (anche solo collaterale) di materiale radioattivo.
Secondo la premier groenlandese Aleqa Hammond si è trattato di una decisione di buon senso: “Non possiamo stare fermi, la disoccupazione sale e il costo della vita aumenta mentre la nostra economia ristagna”.
Per la Groenlandia, all’orizzonte c’è un business enorme: il sottosuolo è infatti ricchissimo di metalli rari, componenti indispensabili per pc e smartphone. Tantissimi colossi minerari, soprattutto cinesi e australiani ma anche britannici, sono già pronti da tempo: ora si tratta di discutere e completare l’iter per le autorizzazioni, ma il muro sta cominciando a cadere. E per Nuuk la totale indipendenza da Copenhagen potrebbe non essere più un miraggio.
Proprio in Danimarca, invece, lo scenario politico sembra essere cambiato nel giro di appena due settimane. Lo ha scritto il Berlingske Tidende, forse con un pizzico di esagerazione. Fatto sta che sabato scorso il giornale ha pubblicato un lungo articolo dove spiega perché il primo ministro laburista Helle Thorning-Schmidt potrebbe vincere le prossime elezioni in programma nel 2015. Difficile crederlo, considerato che secondo i sondaggi l’opposizione di centrodestra è avanti dieci punti.
Eppure il Berlingske Tidende sembra convinto del fatto suo. A supporto della propria tesi fornisce dei numeri. Un sondaggio della TV2 ha mostrato infatti che i danesi preferiscono la leader laburista Thorning-Schmidt (42 per cento) all’ex premier liberale Lars Løkke Rasmussen (40 per cento): un cambio al vertice che riscrive le posizioni dopo mesi e che per il Berlingske Tidende potrebbe essere l’inizio di qualcosa.
Che è successo? È successo che Rasmussen sta pagando il conto dello scandalo che l’ha travolto: in qualità di presidente del Global Green Growth Institute ha spesso viaggiato senza badare a spese. Una brutta figura della quale ha dovuto rendere conto. Politicamente, l’ex premier ne è uscito malconcio e a rimetterci è stato anche il Partito Liberale.
Per il Berlingske Tidende qualcosa potrebbe accadere, e per essere ancora più chiaro il quotidiano è ricorso a una metafora efficacissima: se si buca un pallone, l’aria uscirà sempre più velocemente. Il pallone, tanto per essere chiari, è Rasmussen e il suo partito.
Intanto, anche i politici nord europei guardano ai propri telefonini con una certa diffidenza. L’eco dello scandalo datagate si sente pure in Scandinavia.
Jonas Gahr Støre, ex ministro degli esteri norvegese, ha dichiarato ad esempio che prove per ora non ce ne sono, ma non sarebbe sorprendente scoprire che i leader politici di Oslo sono stati messi sotto sorveglianza.
Il premier svedese Fredrik Reinfeldt ha ammesso di non sapere se sia stato o meno spiato. Idem per il primo ministro finlandese Jyrki Katainen: “Nessuno di noi può dire con certezza se è stato intercettato”.
Le reazioni di Francia e Germania fanno ovviamente più rumore. Normale che sia così: il peso politico ed economico di Berlino e Parigi è quel che è.
E così tra le pagine dei quotidiani scandinavi ha trovato spazio una vecchia storia: se le cinque nazioni nord europee si fondessero in un unico stato federale, acquisirebbero spessore sullo scacchiere mondiale. Tanto per dirne un paio: il super-stato nord europeo troverebbe posto nel G20 e potrebbe condizionare le scelte politiche ed energetiche che nei prossimi anni riguarderanno il nord del pianeta. Ma siamo nel territorio della fantapolitica. Almeno per ora.