Congresso Pd, la stalla da chiudere e i quattro cantoni
E così il tesseramento al Pd fu chiuso. Lo aveva chiesto Gianni Cuperlo, raccogliendo le lamentele di chi aveva notato anomale impennate di iscrizioni proprio a ridosso dei congressi provinciali e di circolo; non si è sostanzialmente opposto Matteo Renzi (dopo giorni in cui i suoi sostenitori si domandavano come fosse possibile rispettare gli iscritti tenendo i cancelli chiusi), dicendo di voler parlare dell’Italia e dei suoi problemi e non (per l’ennesima volta) di regole e tessere.
A fischiare la fine del tesseramento è stato ieri Guglielmo Epifani (ovviamente assieme al responsabile organizzativo Davide Zoggia), che oggi si è premurato di precisare che lo stop alle iscrizioni sarà affrontata dalla commissione per il congresso (di cui lui non fa parte). Ma a parte le proteste di Gianni Pittella, che lamenta di non essere stato consultato prima della decisione, la critica maggiore ora riguarda l’assoluta inutilità del blocco delle tessere. Una critica assolutamente fondata.
Come è noto, le tessere in politica sono sempre state un segno di potere. Chi viene dall’esperienza della Dc (ma anche di molti altri partiti) lo sa bene, avendo conosciuto anche l’esperienza deteriore dei “pacchetti di tessere” o dei defunti che risultavano ancora iscritti e dunque influivano sulla composizione dei vari organi. Il peso delle tessere ancora oggi non è indifferente, ma nel Pd conta soltanto nella prima fase congressuale, quella che arriva all’elezione dei segretari provinciali.
Come è noto, infatti, per il livello regionale e soprattutto per la segreteria nazionale possono votare non solo gli iscritti, ma anche i simpatizzanti. Cioè praticamente tutti coloro che “dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del Partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori”. Da statuto, restano fuori solo “le persone appartenenti ad altri movimenti politici o iscritte ad altri partiti politici o aderenti, all’interno delle Assemblee elettive, a gruppi consiliari diversi da quello del Pd”; tutti gli altri, anche quelli che avessero votato altrove da sempre senza avere tessere di partito in tasca, potrebbero votare.
Per questo, chiaramente, Renzi insiste perché l’8 dicembre possano votare tutti, senza limiti e distinzioni e non si mostra preoccupato per il blocco dei tesseramenti. Erano probabilmente legittime le preoccupazioni di Cuperlo (anche se forse non è corretto attribuire solo a un’area certe pratiche poco trasparenti), ma la decisione di chiudere il tesseramento da lunedì, quando ormai le elezioni dei segretari provinciali e di circolo si sono già compiute (a parte i casi di sospensione) somiglia molto, anzi moltissimo, all’immagine di chi chiude la stalla quando i buoi sono già scappati. In questo caso, gli aspiranti iscritti sono già entrati e quello che dovevano fare, l’hanno già fatto.
Ora, però, il vero problema del congresso Pd è un altro (l’ennesimo). Si nasconde in un comma dello statuto (il 6 capoverso dell’articolo 9) che regola il passaggio tra la prima fase dell’assise – quella in cui votano solo gli iscritti – e la seconda, che culminerà nel voto dell’8 dicembre. Recita il testo: “Risultano ammessi all’elezione del Segretario nazionale i tre candidati che abbiano ottenuto il consenso del maggior numero di iscritti purché abbiano ottenuto almeno il cinque per cento dei voti validamente espressi e, in ogni caso, quelli che abbiano ottenuto almeno il quindici per cento dei voti validamente espressi e la medesima percentuale in almeno cinque regioni o province autonome”.
In soldoni, significa che dei quattro candidati in gara, il voto nei circoli locali ne farà restare in ballo solo tre, lasciando fuori il meno votato di tutti dagli iscritti. In questo senso le tessere contano ancora e si capisce perché non sia preoccupato Renzi, mentre si siano opposti i due candidati meno favoriti, Pippo Civati e soprattutto Gianni Pittella, che non si è risparmiato nel definire quella norma “regola demenziale, da ospedale psichiatrico”. Lui, in effetti, è quello che rischia di più l’esclusione, molto più di Civati.
Sembra davvero un gioco dei quattro cantoni (anzi, tre) per bambini cresciuti, in cui due sono sicuri di trovare posto, mentre gli altri due temono di non farcela. Non a caso, ieri era stato proprio Civati a proporre una soluzione: “Se fossi stato in Epifani avrei convocato i candidati e d’accordo con loro avrei consentito a tutti di partecipare alla fase finale del congresso: sarebbe l’unico modo per disinnescare le irregolarità che ci sono state e renderle ininfluenti”. Dunque quattro candidati, con un nuovo cambio di regole: stavolta non del regolamento congressuale, ma addirittura dello statuto.
E’ probabile che questo non avvenga, anche se nessuno è certo, da questo punto di vista. Ma certamente questo congresso si presenta come il più accidentato nella storia del Pd. Il problema non si porrebbe se uno dei quattro si ritirasse, ma non pare proprio che qualcuno sia intenzionato a farlo. Chi vivrà vedrà. Sperando che anche il partito viva e veda.