C’è un dato certo a proposito di quanto succede in questi giorni nel PD e intorno al PD: lo scontro è tutto maschile.
Renzi vs Bersani, Fassina vs Renzi; a Milano l’assessore Stefano Boeri vs il segretario del partito milanese Roberto Cornelli, solo per citare gli ultimi episodi che stanno caratterizzando il (sempre difficile) “work in progress” del Partito Democratico.
(Tralascio volutamente D’Alema vs Veltroni, la madre di tutte le sfide. Una delle “eredità”, non certo la sola, che il PD si porta dietro da uno dei partiti “soci fondatori”).
Nel PD il testosterone è alle stelle.
[ad]Salta agli occhi che la parte femminile del partito è totalmente tagliata fuori, a parte poche sparute presenze, Rosy Bindi e Debora Serracchiani, comunque mediaticamente soverchiata dal suo compagno di partita Pippo Civati.
E’ un segnale importante quello che arriva dal PD; e non proprio rassicurante.
Per due ragioni.
La prima è quella più immediata: se il maggior partito del centro sinistra non riesce a costruire un percorso che dia spazio e ruolo alle donne, non solo in modo formale, c’è qualcosa che non va. E mette in evidenza la scarsa efficacia del “50 e 50” delle quote stabilito per ogni organismo del partito, evidentemente non sufficiente per garantire una reale pari opportunità nel percorso politico a tutti i livelli.
Nella fotografia impietosa di Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera di una decina di giorni, sulle 17 (presunte) correnti di appartenenza del PD, solo Rosy Bindi, presidente del Partito e dunque in un’effettiva posizione di potere, viene accreditata come “capo corrente”.
A conferma che le donne non sono presenti più di tanto nei meccanismi della lotta politica così come viene proposta e giocata dagli uomini. Non sono presenti anche per scelta.
E siamo alla seconda ragione.
Nelle sfide quasi muscolari a cui assistiamo in questi giorni, le donne fanno fatica a entrare. Perché queste non sono modalità loro. Dunque si astengono dal partecipare e si attivano in modo più costruttivo, ad esempio amministrando con grande qualità comuni, provincie e regioni.
E’ evidente che se nel confronto e scontro politico entrassero il buonsenso, la capacità di mediazione e la sensibilità propri del femminile le cose cambierebbero e parecchio.
Molto probabilmente in positivo.
L’OPA lanciata da molti “giovani” dirigenti e amministratori del PD (Renzi, Civati, Zingaretti…) per l’innovazione del PD e della politica appare dunque incompleta.
Perché propone una leadership ancora una volta tutta al maschile.
In questo senso il “modello Milano”, quello che ha portato a vincere Pisapia, è stato paradigmatico anche nella scelta degli assessori (quindi in ruoli di potere effettivo): 50 e 50.
Sarà interessante capire se la presenza di donne competenti in ruoli chiave (come ad esempio l’assessorato all’urbanistica che fa capo a Lucia De Cesaris) influirà positivamente sulla qualità del governo della giunta Pisapia, come già succede in altre realtà italiane. E sarà altrettanto interessante vedere se il PD, il partito più importante della maggioranza che governa Milano, riuscirà a farsi “contaminare” dalle buone pratiche messe in atto dal sindaco Pisapia nella condivisione dei ruoli di governo tra uomini e donne.
Al momento i segnali sembrano ancora molto deboli.
La questione non riguarda ovviamente solo il Partito Democratico ma tutta la politica italiana. Ma è evidente che il PD dovrebbe farne una cifra distintiva più degli altri.
Soprattutto se vorrà porsi e proporsi come partito di governo affidabile e davvero innovativo.