I soldi non danno la felicità, il PIL nemmeno, ma allora dove la troviamo? Nel sesso? Oppure nel lavoro? O piuttosto nella religione? Due economisti hanno provato a monetizzare, con qualche sorpresa…
Lo studio non è stato pubblicato su Playboy, ma sullo Scandinavian Journal of Economics, quasi dieci anni fa. Una rivista che è a malapena tra i primi 200 titoli di economia al mondo, ma forse i suoi autori, David “Danny” Blanchflower e Andrew Oswald, lo hanno scelto puntando all’apertura mentale scandinava in tema di sessualità. E poi, al giorno d’oggi, pubblicare sull’American Economic Review non è tutto.
Provate a cercare“Blanchflower” e “Happiness” su Google: dopo la pagina Wikipedia del celebre David trovate proprio il riferimento all’articolo scritto con Oswald e intitolato “Money, Sex and Happiness: an Empirical Study”.
Soldi, sesso e felicità. Non sono le parole chiave che daranno il Nobel per l’Economia ai due professori, ma sicuramente funzionano con i motori di ricerca. Comunque, a scanso di equivoci, Blanchflower e Oswald sono due “signori” economisti con curricula di prim’ordine, tanto che il primo è nel Comitato di Politica Monetaria della Banca d’Inghilterra (in pratica è uno di quelli che decidono il tasso d’interesse nel paese di Sua Maestà), mentre il secondo è nel comitato editoriale di Science e ha insegnato a Oxford, Princeton e Harvard.
Inoltre, il loro studio è “empirico” semplicemente perchè si sono dannati a raccogliere ed elaborare dati, mentre non si ha notizia di esperimenti umani di maggiore interesse. Insomma, volendo, la solita noia da economisti. Per chi crede alla “monetizzazione” resta però un esercizio molto interessante.
Crescita infelice. In un articolo diverso, dello stesso anno, Blanchflower e Oswald partono da una prima osservazione semplice, ma illuminante. Tra il 1972 e il 1998, mentre il caro vecchio PIL cresceva serenamente negli Stati Uniti e in Inghilterra, americani e inglesi non diventavano più felici. Sottoposti ogni anno alla medesima domanda sulla soddisfazione sulla propria vita (attraverso indagini ufficiali), il numero di statunitensi che si dichiaravano “molto felici” è regolarmente diminuito, dal 34% del 1972 al 30% del 1998, mentre quello degli inglesi è rimasto stabile attorno al 32%.
Nello stesso periodo, il PIL reale pro-capite (ossia il potere d’acquisto medio per cittadino) è cresciuto del 69% negli Stati Uniti e del 70% in Inghilterra. Considerando i prezzi del 2005, l’americano medio produceva meno di 22000 dollari di PIL nel 1972, qualcosa come 37000 nel 1998, ma non è bastato a combattere l’infelicità e nemmeno in Inghilterra il balzo dai 18000 dollari del 1972 ai 31000 del 1998 ha generato britannici soddisfatti. E allora dov’è la felicità?
Si parla solo di medie… e i modelli spiegano appena il 12% della felicità
Gli americani e il sesso. L’americano mediano, secondo lo studio, ha rapporti sessuali tra due e tre volte al mese. Sotto i quaranta di età la mediana sale ad una volta alla settimana. Il 7% ha dichiarato attività sessuale almeno quattro volte alla settimana. C’è però un terzo di donne americane che ha dichiarato di non avere avuto rapporti nell’anno precedente, mentre per gli uomini la percentuale scende al 15%. Si tratta, ovviamente, di dati autoriportati.
Sesso e felicità. Lo studio afferma che l’attività sessuale ha un fortissimo effetto sulla felicità delle persone, soprattutto per quelle con scolarità più alta. Essere omosessuali non ha un’influenza significativa sul livello di felicità dichiarata, né in positivo, né in negativo. Il numero di partner nell’anno precedente che massimizza la felicità del dichiarante è… uno! E, attenzione attenzione, non si trova un collegamento tra reddito e attività sessuale. Non solo, ma chi è ricorso al sesso a pagamento, è mediamente meno felice degli altri.
Non solo sesso. Stando ai risultati di Blanchflower e Oswald, saltano fuori altri aspetti interessanti. Invecchiare, ad esempio, rende generalmente meno felici.. che sorpresa! Come compensare? Beh, in termini di impatto, la felicità persa in 7 anni di invecchiamento si compensa più o meno passando da un’attività sessuale mensile ad una quotidiana.
Inoltre, pare che in effetti i soldi un po’ di felicità la diano. Nei modelli dei due economisti il reddito è sempre positivamente legato alla felicità, così come lo è il fatto di avere un unico partner sessuale, essere sposati, non avere i genitori divorziati prima dei 16 anni e, soprattutto, avere un lavoro. Non aiuta, invece, nascere con la pelle colorata negli USA. Prima di Obama, la “perdita di felicità” associata all’essere nero era superiore a quella di essere vedovo.
E nel 2010 in Europa? I due economisti hanno continuato a scavare in un filone di successo e uno studio internazionale di un paio di anni fa ha confermato per l’Europa sostanzialmente gli stessi risultati made in USA. Intanto, a parità di altre condizioni, bisogna sfatare il mito della felicità di chi vive in Italia. A parità di reddito, occupazione, religione e via dicendo, sono gli scandinavi, sì, proprio quelli dei suicidi facili, a vincere le medaglie della felicità.
Peggio dell’Italia, ceteris paribus, stanno una buona parte dei paesi dell’est Europa, la Turchia, il Portogallo e, solo recentemente, la Grecia. Per il resto, tutto uguale agli USA, la stabilità nel lavoro e nella coppia rendono più soddisfatti.
Religione e internet. Si scopre anche che in Europa chi pratica assiduamente una religione è significativamente più felice di chi la pratica meno o è ateo, e che l’uso quotidiano di internet è associato ad un livello di soddisfazione della vità maggiore. Soprattutto per chi legge e pratica l’Undici.
Una ricetta per tutti? Come sempre, la statistica ci racconta una mezza verità che è anche una mezza bugia. Il “modello europeo”, statisticamente, spiega appena il 12% della varietà di felicità tra i rispondenti. Come dire, c’è un 88% di felicità che possiamo trovarci da soli, senza soldi, sesso, matrimoni, religioni e colori della pelle… Immaginatelo.
Per saperne di più: Blanchflower, David G., and Andrew J. Oswald. “Money, sex and happiness: An empirical study.” The Scandinavian Journal of Economics 106.3 (2004): 393-415.