Nella primavera del 1924, il ventitreenne Piero Gobetti diede alle stampe il suo saggio di commento sulla realtà politica italiana dei suoi anni La rivoluzione liberale, usando il titolo della rivista che dirigeva da due anni, e in cui aveva coinvolto alcuni dei più importanti commentatori politici ed economici dell’Italia di allora, da don Sturzo a Luigi Einaudi ad Antonio Gramsci, insieme a diversi autori più giovani che proprio nella collaborazione col precocissimo talento torinese dell’organizzazione culturale ed editoriale avrebbero trovato il primo significativo spazio nel dibattito pubblico.
Nel suo volume, Gobetti trattò ampiamente delle cruciali elezioni politiche del 1919, le prime dopo la Grande guerra, che con l’emersione del Partito socialista come principale forza parlamentare del paese e l’exploit dei popolari sturziani sconvolsero il sistema politico italiano. Di fronte alle critiche dell’opinione pubblica più conservatrice, che sostanzialmente imputava a questo improvviso mutamento di equilibri le difficoltà a garantire un assetto governativo stabile che avrebbero aperto la strada al fascismo, Gobetti mise in evidenza che i risultati elettorali non facevano che evidenziare uno stato di fatto nella distribuzione del consenso politico, e che non era certo nascondendo la realtà sociale che si sarebbe potuto continuare a governare senza intoppi. Dal suo punto di vista, quindi, il sistema elettorale proporzionale, adottato proprio per le elezioni del 1919 e causa principale della buona affermazione dei grandi partiti organizzati e socialmente radicati, rappresentava un importante innesto per garantire la piena modernizzazione del sistema istituzionale, attraverso l’entrata negli organismi di rappresentanza delle forze sociali effettivamente più vitali e più presenti, che invece il precedente uninominale teneva escluse riproducendo artificialmente classi dirigenti ormai prive di legittimità reale. Le sue parole in proposito meritano di essere ricordate:
Il collegio uninominale fu il sistema ideale in un paese (l’Inghilterra) che aveva rinunciato al feudalismo per garantirsi contro un sovrano statolatra; è ancora economicamente e politicamente una forma feudale, presuppone il voto limitato e l’esistenza d’una classe aristocratica, si adatta a un tipo di vita tradizionale e sedentaria, esente dallo spirito d’avventura; riesce l’ideale più accessibile ai contadini, alieni dal partecipare alla vita dello Stato, paghi di eleggere il deputato, incapaci di controllarlo.
Dove il deputato non può parlare in nome dei suoi interessi di feudatario, la tendenza al collegio uninominale si esprime nella formazione di una classe di politici, facili a degenerare in una pratica di politicantismo parassitario. Questo processo si ebbe, in forme alquanto demagogiche, in Italia […].
Così stando le cose, la rappresentanza proporzionale parve giustamente segnare in Italia il periodo in cui la vita unitaria si sarebbe imposta alfine, dopo il tormento della guerra e dell’ascensione socialista, con una fisionomia di serietà etica e politica. […]
L’utilità della proporzionale non fu quella di uno strumento di conservazione, come crede alcuno, ma si rivelò nel creare le condizioni della lotta politica e del normale svolgimento dell’opera dei partiti. […] La proporzionale obbliga gli individui a battersi per un’idea, vuole che gli interessi si organizzino, che l’economia sia elaborata dalla politica.
Uno dei più forti segni di disgregamento nel dopoguerra non fu la lotta di classe, ma il pericolo che le classi si spezzassero egoisticamente in categorie; che gli interessi vincessero le idee, che il corporativismo si sotituisse ai costumi di lotta sindacale rivoluzionaria insegnati da Marx e Sorel. Il pericolo – anche se nessuno l’aveva visto – stava nelle rappresentanze proporzionali. […] Solo la proporzionale ebbe la virtù per qualche anno di utilizzare queste forze disgregatrici obbligandole a trasportare gli interessi nel capo politico, dove naturalmente son tratti a coordinarsi rinunciando al loro esclusivismo proprio quanto più ciascuno lo afferma e lo difende. […]
L’importanza moralizzatrice della proporzionale si riconobbe negli esperimenti italiani, nella sua attitudine a liquidare i governi di maggioranza. Dove prevale senza incertezze una maggioranza si ha nient’altro che un’oligarchia larvata. La formazione elettorale della maggioranza di governo è poi sempre un risultato di transazioni e di equivoci […].
La vita moderna si nutre di antitesi e di contrasti non riducibili a schemi; i blocchi e le concentrazioni sono il sistema del semplicismo in cerca di unanimità; la logica della vita politica si riposa nella varietà e nel dissenso, il governo ne sorge per un processo dialettico diversamente atteggiato a seconda delle diverse azioni di tutti i partiti. La proporzionale è riuscita a creare le condizioni di vita per un governo di coalizione […].
In quel periodo torbido e difficile, mentre la proporzionale aiutò con chiarezza i governi a salvare il paese, ci fu dato il primo esempio della capacità degli italiani a vivere in un regime di democrazia moderna: fuori di quell’esperimento non ci rimase altra alternativa che il Medioevo di Mussolini.
Quest’ultimo paragrafo aiuta a circostanziare meglio il giudizio. Il confronto da cui viene esaltata la proporzionale del 1919 è, infatti, soprattutto la soluzione proditoriamente maggioritaria con cui si andava a votare proprio nell’aprile del 1924, e in cui, secondo uno sviluppo già iniziato coi “Blocchi nazionali” inglobanti fascisti e nazionalisti a sostegno dell’establishment tradizionale nel 1921, si crercava di garantire la vittoria a un “blocco” unanimistico creato artificialmente per legittimare l’involuzione autoritaria che Mussolini aveva appena iniziato a guidare.
In quest’ottica, effettivamente il sistema proporzionalerappresentava un importante punto d’approdo, degno di essere strenuamente difeso, per le istituzioni democratiche italiane in quello specifico momento del loro sviluppo. I decenni precedenti avevano visto la formazione, nella società italiana, di grandi movimenti culturali e sociali capaci di darsi un’organizzazione vitale e presente nelle pieghe della comunità nazionale. Il loro ingresso sulla scena delle istituzioni era indispensabile non solo per mere ragioni di equità nella rappresentanza: immettendo nella vita parlamentare e governativa i risultati dell’implantation del partito socialista e del cattolicesimo organoizzato nelle sue varie forme culturali, politiche e sindacali, secondo un processo che già sul piano municipale stava portando a un rinnovamento di grande spessore della cultura amministrativa, un sistema elettorale capace di dare il giusto peso alle grandi forze organizzate avrebbe garantito il rafforzamento dell’identificazione dei cittadini nelle istituzioni, e anzi la nascita di una concezione della partecipazione politica che si sarebbe rivelata indispensabile per dare sostanza alla democrazia in un paese creato senza la diretta partecipazione, e anzi spesso con la consapevole esclusione dal processo, delle grandi masse popolari e di ampi settori delle classi medie meno direttamente coinvolte nelle pratiche elettorali ai tempi del suffragio ristretto.
In un paese caratterizzato dalla conformazione politica e dai ritardi culturali dell’Italia, insomma, la proporzionale rappresentava, immediatamente dopo la Grande guerra, il necessario e definitivo completamento di un suffragio universale (ancora solo maschile) veramente efficace. E Gobetti riuscì, come suo solito, a chiarire i termini di lungo periodo dei caratteri della situazione politica a lui contemporanea, individuando il ruolo fondamentale del proporzionale nel dare definitiva forma all’organizzazione dei grandi interessi collettivi, e nell’uscire da un’epoca del voto censitario che in Italia più a lungo e più chiaramente che altrove si era espressa soprattutto nei termini della conservazione del potere nelle mani di una ristretta classe politica “legittima”.
Ma questa difesa del proporzionale può essere, senza un supplemento di riflessione, ripresa oggi, così da fare tuttora quella di Gobetti una voce a propozione di questo tipo di sistema elettorale, nel modo in cui io ho ripreso il favore di Luigi Einaudi per l’uninominale espresso nel 1944 trovandovi paralleli con l’attualità? Se ogni ripresa attualizzante del passato è sempre in qualche misura forzata, in questo caso si rischierebbe di travisare il significato delle parole.
In primo luogo, nel contesto politico da lui preso in considerazione stava imponendosi un modello partitico dotato di una forte organizzazione sociale e caratterizzato da un deciso intervento nella formazione delle opinioni e nell’”educazione” degli aderenti e degli elettori alla vita associata. Il proporzionale era quindi sicuramente il miglior sistema di espressione per la modernità politica di inizio Novecento. L’Italia ha poi pienamente attraversato questo modello di gestione del consenso e delle appartenenze ideali soprattutto nella postfascista “repubblica dei partiti”, e ormai lo ha del tutto esaurito. La “crisi dei partiti” non è semplicemente leggibile in una loro momentanea incapacità di svolgere il lavoro che facevano prima, ma assai più profondamente nella fine della funzionalità del modello del partito di integrazione di massa in una società coi caratteri sociali, economici e culturali di quella italiana. Caso mai, a ben guardare, proprio l’artificiale mantenimento di questa forma di partito al di là del lecito ha portato il paese al rischio di quella deriva nella rappresentanza d’interessi corporativi e di categoria che Gobetti paventava, vista la tendenza di molte forze politiche a curare in questo modo il rapporto con alcuni gruppi di voto specifici a scapito di altri pur di sopravvivere.
Di conseguenza, il sistema di strutturazione dell’offerta elettorale connaturato al pieno successo di quel tipo di soggetti politici non è più adeguato. In effetti, l’attraversamento di quel tipo di comportamento politico diffuso da parte della società italiana non è trascorso invano: le forze politiche hanno, nel loro complesso, raggiunto quella dimensione nazionale, e hanno sviluppato (essenzialmente con la sperimentazione delle primarie) forme di selezione dei loro vertici adeguate allo sviluppo e al mantenimento del consenso in un regime di suffragio universale e di partecipazione politica diffusa, che anche altrove hanno garantito i sistemi uninominali maggioritari più efficienti di riproporre in Parlamento una mera selezione di oligarchi sociali.
L’obiettivo non può quindi che essere quello di trasferire a un momento anteriore alla competizione tra i partiti su programmi e uomini quel confronto di “antitesi e contrasti” fondamentale per evitare l’artificialità oligarchica o l’unanimismo autoritario, ma che ormai, in una società che finalmente sta cercando di diventare più mobile e aperta, non può più avere luogo tra partiti “monolitici” in grado di autoriprodurre l’adesione a se stessi dei militanti.
Non voglio certo permettermi di attribuire a Gobetti una qualche fantasiosa valutazione sull’attualità, chiedendomi che posizione prenderebbe di fronte ai potenziali sviluppi del nostro sistema politico. Tuttavia, il suo giudizio sulla proporzionale non può che essere letto nel più ampio contesto, così ben delineato nella Rivoluzione liberale, della necessità di individuare due forze socialmente vitali e idealmente rappresentative di progresso e conservazione, così da ricondurre su questo piano la dialettica politica italiana. Letto secondo queste coordinate, l’auspicio dei governi di coalizione post-1919 appare più la necessità in un cruciale momento di transizione nei costumi della rappresentanza e nel comportamento dei gruppi sociali verso la politica, che non l’idea per una soluzione permanente, e forse la capacità oggi dimostrata in più occasioni dei sistemi uninominali maggioritari (specie con l’accorgimento del doppio turno) di garantire in questi termini la funzionalità delle istituzioni in contesti di democrazia consolidata su base nazionale avrebbe interessato anche il giovane torinese.