Due anni di (inutile) Grande Coalizione. Probabilmente non si è cancellato il ricordo di ottobre e novembre 2011: lo spread tra i BTP e i Bund arrivava a 578 punti base, Merkel e Sarkozy ridevano pubblicamente del Cavaliere che, dopo aver tamponato la defezione di Fini con Razzi e Scilipoti, contava su una risicata maggioranza alla Camera ormai incapace persino di approvare il Rendiconto sul Bilancio dello Stato.
L’8 novembre Berlusconi prometteva le dimissioni dopo l’approvazione della legge di Stabilità, il 9 novembre Napolitano nominava Mario Monti senatore a vita, il 12 novembre Berlusconi rassegnava le dimissioni mentre per le strade del Paese si festeggiava. Il Presidente della Repubblica affidava allora l’incarico al professore, a cui il Parlamento votava la fiducia tra il 17 e il 18 novembre.
È difficile esprimere, a due anni di distanza, un giudizio sulle scelte del presidente Napolitano e sull’esperienza del “governo dei tecnici”. Il Capo dello Stato allora era salutato da tutti come il liberatore che aveva esautorato il satrapo irriso e evitato in tutto l’emisfero occidentale. Oggi soltanto poco più della metà dei cittadini condivide le posizioni dell’inquilino del Quirinale che, di fronte allo stallo del nuovo Parlamento, ha accettato un nuovo mandato che gli impedisce di godersi la pensione alla panchina del Pincio.
Il moderato intransigente Mario Monti poteva essere la “felice anomalia necessaria per raddrizzare l’Italia del post-berlusconismo” (Eugenio Scalfari, Il governo tecnico e la destra storica, la Repubblica, 20/11/2011) e, invece, si è imbarcato in un’avventura sciagurata con Fini e Casini che ora lo abbandonano all’oblio in cui, politicamente, merita di cadere.
Così di quell’esperienza resta una lunga serie di aspettative tradite. Da colui che comminò a Microsoft una multa milionaria ci si aspettava molto di più: probabilmente, però, i nostri parlamentari sono più forti di Bill Gates. Monti aveva iniziato con una terapia shock (“Decreto Salva Italia”) ma, passati l’allarmismo e l’euforia, ha tirato a campare per non cadere e ben poco ha realizzato delle riforme promesse quando si insediò a Palazzo Chigi.
Mario Monti, però, ha soprattutto lasciato in eredità l’alleanza che appoggia il Governo Letta -si scrive Große Koalition e si legge “ammucchiata”. Chi segue, anche poco, la politica tedesca – dove la grande coalizione tra destra e sinistra è un fatto normale in caso di necessità numerica – avrà notato che dopo le elezioni federali dello scorso 22 settembre non è ancora stato formato il nuovo governo.
In Germania, come anche nel Regno Unito, i governi di coalizione non scandalizzano né l’opinione pubblica né Beppe Grillo perché sono fondati su un programma e su una tabella di marcia rispettata dalle forze che la sottoscrivono. Il governo Letta, invece (come molti governi che l’hanno preceduto) non ha un programma, non ha una scaletta. Come nei tempi peggiori del pentapartito, il governo si fonda sull’equa ripartizione delle poltrone tra i partiti e le correnti che lo appoggiano e, davanti a sé, ha un futuro di trattative estenuanti che partoriscono un compromesso senza prospettiva a lungo termine.
Votare nell’autunno del 2011 sarebbe stato folle; tornare a votare ora sarebbe ancora dannoso. Ma se la nostra Große Koalition non produrrà alcun risultato, forse, il male minore sarebbe dare al Paese la possibilità di avere quel sussulto di dignità che ha dimostrato nei periodi più difficili della propria storia. Io fatico a rassegnarmi all’idea che l’Italia sia destinata a tirare a campare, come chi la governa.