Meno male che Silvio non c’è…
L’inesorabile declino del partito personale
[ad]Ci sono due modi di osservare la politica. Uno è quello cronachistico, pieno di dimenticabili dettagli, con una predilezione per i più folkloristici e coloriti. L’altro mira a cogliere, dalle vicende ordinarie, una tendenza di medio-lungo periodo. O, per lo meno, una riflessione teorica.
Noi preferiamo il secondo, partendo dall’analisi di due vicende contingenti proveremo a ricavare una tendenza politica di fondo:
- la vittoria del centro-destra alle elezioni regionali in Molise con la riconferma di Iorio, grazie all’assenza di Berlusconi;
- i problemi interni della Lega e le polemiche esplose con l’episodio del congresso farsa per eleggere il segretario del partito nella provincia di Varese.
- Per la prima volta dal simbolo del PDL scompare il nome del Presidente del Consiglio. Omesso perché ritenuto presagio di sventura elettorale. Mentre cinque anni fa piombò in Molise quattro volte in un mese per sostenere il governatore Iorio, questa volta non si è fatto vedere. Niente comizi, nemmeno videomessaggi o collegamenti telefonici. Nulla di nulla. Peggio: Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc, per “giustificare” l’alleanza con il PDL ha proclamato: «Iorio non è Berlusconi». Si racconta poi che, in privato, i colonnelli del PDL abbiano sì evocato il Cavaliere, ma per bandirlo dalla campagna elettorale: «Ora fa solo perdere voti». E gli ultimi indizi elettorali fanno una prova. Milano: Berlusconi prende in mano la campagna per le comunali affondando la Moratti. Napoli: Lettieri telefona Verdini supplicandolo: «Convinci il presidente a non venire»; Silvio va e trova una piazza Plebiscito semivuota e fischiante, facendo felice De Magistris. Referendum, i consiglieri suggeriscono il basso profilo, ma lui fa appelli per l’astensione e trascina milioni di elettori alle urne. Pare trascorso un secolo da quando «BERLUSCONI» campeggiava a caratteri cubitali sul simbolo del partito, sovrastando i nomi dei sindaci e dei governatori di turno – lasciati piccini e relegati nella parte bassa sullo sfondo. In altri tempi i candidati azzurri facevano stampare manifesti con fotomontaggi dove simulare l’abbraccio e la benedizione del Cavaliere. Una simile scelta oggi appare come un suicidio politico. Ed ecco che ora scoppiano le critiche interne – nel partito personale per definizione (sic!) – alla battuta “Forza gnocca”, motto vagheggiato come nuovo nome da dare al partito per rilanciarlo. La Santanché, con la consueta castigata sobrietà, si è affrettata a dichiarare: «Forza gnocca è un’idea del cazzo». La reazione scomposta, di pensosa incredulità dei berluschini – quelli cioè che l’hanno idolatrato per anni in modo quasi mistico – è ipocrita, opportunista e cinica. Prima, quando sembrava ben saldo a Palazzo Chigi, poteva bestemmiare, barzellettare su gay e sieropositivi, inneggiare a tette e culi senza che nessuno dei suoi alzasse un sopracciglio. Ora tutti abbandonano la nave che affonda: è un fuggi-fuggi generale, si salvi chi può! Una vigliaccheria da voltastomaco, che fa quasi venire voglia di abbracciarlo il “povero Silvio”. Iorio alla fine l’ha spuntata per un soffio su Frattura, il candidato del centro-sinistra. Ce l’ha fatta nonostante il clima nazionale di sfavore per il centro-destra, ha vinto grazie anche alla damnatio memoriae di Berlusconi. Forse sarebbe il caso di cambiare il gingle del PDL: «Meno male che Silvio non c’è…».
- Al congresso per scegliere il segretario provinciale di Varese si è affermato tal Canton. Un uomo del capo, e questa sembra essere la sua unica credenziale. Era lui “il prescelto”, aveva l’investitura del Senatur. Gli oppositori interni però non volevano accettare una decisione pilotata dall’alto e hanno preteso un’elezione regolare. La richiesta è stata respinta e si è deciso di procedere per acclamazione, onde evitare di smentire platealmente Bossi. Ma poi pare che neanche l’acclamazione ci sia stata. Una mera imposizione, tra urla, contestazioni e forse qualche sberla. Una bega da cortile, insomma, per una nomina non di primo piano. Ma tale episodio assurge ad un valore simbolico: è la plastica rappresentazione della crisi del partito personale. Senza la possibilità di organizzare il dissenso interno, in modo leale e non cospirativo, come è possibile agire in forme politicamente sensate? Come si fa a proporre tesi alternative attorno alle quali costruire una proposta credibile e competere per la conquista della leadership? La politica è così ridotta a una ridicola adorazione del capo, a torbide cordate di potere e opache trame ordite nei ristoranti romani. Analogo discorso vale per il PDL, un partito che scambia il conflitto politico per lesa maestà e che si trova imprigionato in un unanimismo di facciata, dietro il quale si celano ambizioni legittime di una parte del suo ceto politico e i veleni dei berluschini di cui sopra. Formalmente guidato da Alfano, personalità sbiadita, sprovvista di autonomia decisionale e di risorse politiche proprie – in termini di autorevolezza, prestigio, seguito personale -, il principale partito di governo si trova stretto tra un frondismo tardivo e disomogeneo e la più cieca fedeltà a Berlusconi. Una fedeltà impolitica, aziendale, opportunista. Tifo, più che altro. Tifo disperato per il cavallo, ora in difficoltà, sul quale si è puntato tutto.
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