Il governo Letta come “governo del fare”? Non si direbbe, almeno a leggere i commenti del principale quotidiano economico italiano (il Sole 24 Ore) e di una delle più prestigiose testate a livello mondiale (The Wall Street Journal): due articoli pesanti ritraggono l’immagine di un esecutivo quasi immobile o, per lo meno, sostanzialmente inefficace.
“L’Italia ha di fronte la stabilità del cimitero?“. Titola così, in modo molto duro e apocalittico, il Wall Street Journal con un articolo dell’opinionista Simon Nixon. A detta sua, “molti imprenditori italiani considerano la prospettiva di altri 18 mesi di governo Letta seriamente allarmante” perché fin qui l’esecutivo avrebbe “tentato poco e realizzato ancora meno”. E se la stabilità di governo (cosa su cui in pochi avrebbero scommesso) ha rassicurato i mercati, non si vedono segnali incoraggianti sul piano della crescita e delle riforme richieste.
Se la coalizione su cui Letta può contare ora sembra più solida dopo la spaccatura del Pdl (cosa che permetterebbe all’esecutivo di durare fino all’inizio del semestre di presidenza Ue, “dovendo” a questo punto restare in carica fino alla fine del 2014) e rendimenti sui titoli e spread sono calati dando più respiro alle finanze, per il Wsj non si può dire che le imprese salutino con piacere quest’eventualità, soprattutto perché la legge di stabilità sarebbe di molto al di sotto delle aspettative. Cosa che avrebbe riconosciuto persino qualche ministro, ovviamente in privato.
Letta (come Monti prima di lui) sarebbe dunque “paralizzato dall’opposizione politica dentro e fuori dal Parlamento” e non riuscirebbe ad agire sulla spesa né sul fronte delle riforme: l’Italia, nota l’economista della Deutsche Bank Gilles Moec, “è l’unico Paese del Sud Europa che non ha visto nessun miglioramento significativo della sua posizione competitiva dall’inizio della crisi globale”. La produttività è in discesa (“senza un aumento della produttività è difficile vedere come l’Italia possa realizzare la crescita necessaria per rispettare gli obiettivi Ue del debito”) e l’economia è in recessione per il decimo trimestre di fila: Spagna e Portogallo, per dire, sono andati meglio.
E se per alcuni ministri l’affaire Berlusconi è stato una palla al piede per le riforme e la nomina del commissario alla spending review Carlo Cottarelli sarebbe il primo passo concreto, per l’opinionista del Wsj “è difficile affrontare gli interessi costituiti, nei sindacati e nell’imprenditoria, che hanno bloccato i precedenti sforzi di riforma del sistema giudiziario, delle regole del lavoro e della pubblica amministrazione”. E per molti Letta non sarebbe in grado di unire tutte le forze che lo sostengono “dietro un ampio programma di riforma”. La stessa Bce peraltro avrebbe la colpa di avere allentato la pressione dei mercati (tenendo bassi i costi di indebitamento), fermando così gli sforzi per riformare l’economia.
Paradossalmente, le speranze di molti per il Wsj stanno prendendo le sembianze di Matteo Renzi, perché vinca le primarie “con un margine abbastanza ampio da costringere il governo Letta ad accettare nuove elezioni“, sperando che da quelle elezioni esca poi “un governo di maggioranza con il mandato per intraprendere un ampio programma di riforme“. Nixon però sa che Letta gode dell’appoggio di Giorgio Napolitano e con Renzi potrebbe aversi una spaccatura, con conseguente stallo politico che bloccherebbe le riforme. Quasi in un rigor mortis.
Ma se il Wall Street Journal mena fendenti durissimi, non è più tenero il quotidiano di Confindustria, attraverso un editoriale del suo direttore, Roberto Napoletano. E anche il Sole 24 Ore parte dal “fallimento” della legge di stabilità: “Presidente Letta tiri una linea, azzeri tutto, prenda atto che la (sua) legge di stabilità non è in grado di cogliere le priorità del Paese e di fornire le risposte adeguate”. Il tempo per rimediare sarebbe pochissimo, ma in teoria c’è: se l’opportunità non sarà colta, Letta rischia di chiudere male la sua permanenza al governo, ma soprattutto di “aggravare irrimediabilmente il logoramento del tessuto economico e civile di un’Italia stremata e mai (davvero) ripartita”.
Nota Napoletano come le forze produttive e sociali (“il cuore profondo di un’Italia che non si rassegna al galleggiamento e, di conseguenza, al declino”) siano sorprendentemente concordi nell’essere insoddisfatti del ddl di stabilità visto finora, quando la richiesta principale è “rimettere al centro il lavoro, l’industria, la domanda interna”: questo dovrebbe tradursi in una riduzione immediata dei prelievi fiscali e contributivi su imprese e lavoro e nell’introduzione di un meccanismo automatico che destini automaticamente tutte le risorse ricavate dalla spending review e dal contrasto all’evasione alla riduzione del cuneo fiscale.
A Letta, dunque, toccherebbe mettere da parte “i residui populismi della sua maggioranza politica” e fare ciò di cui il tessuto socio-produttivo del paese ha un estremo bisogno (a partire dall’occuparsi “non a parole del futuro dei nostri giovani” e dei 40-50enni precari): a quelle condizioni, secondo Napoletano, sarebbe più facile investire sulla ricerca e sulla internazionalizzazione e restituire “quella fiducia contagiosa, nel corpo vivo del Paese, di cui la domanda interna ha assoluto bisogno”.
Il direttore del Sole 24 Ore chiede dunque “tagli selettivi e rigorosi nell’area dello spreco centrale e territoriale” per avere risorse per il rilancio dell’economia, senza che si disperdano nei “mille rivoli assistenziali di questo Paese”. Per Napoletano c’è una certezza: “se la crescita non riparte anche il rapporto debito/pil non scenderà e sarà un rincorrersi affannoso di nuovi, insopportabili balzelli”. Un decimo delle risorse recuperate, però, dovrà comunque servire per abbattere il debito pubblico: sarebbe “un valore di richiamo alla serietà, prima per noi stessi che per l’Europa”. Per Letta, in ogni caso, non sarà una passeggiata. Sapendo che di occhi puntati addosso ne avrà parecchi.