La vicenda Irisbus Iveco – parte 2
Centodiciotto sono i giorni di presidio dinanzi ai cancelli dello stabilimento per gli operai della Irisbus-Iveco quando viene siglato, presso la sede avellinese di Confindustria, l’accordo tra le rappresentanze sindacali e la Fiat-Industrial.
La resistenza dei settecento lavoratori si è protratta dal 7 luglio al 2 novembre ed ha probabilmente rappresentato un imprevisto, un incidente di percorso, per il gigante Fiat.
[ad]Oltre ogni aspettativa, gli operai hanno intrapreso una mobilitazione attraverso la quale sono riusciti a dare visibilità alla vicenda che si stava abbattendo sulle loro vite e su quelle delle loro famiglie, che riguardava il futuro di un territorio che non può contare su grandi unità produttive.
Lo stabilimento di Flumeri era diventato una fortezza inespugnabile, da difendere con le unghie e con i denti, in cui erano rimasti fermi gli ultimi autobus in produzione.
Questo è lo scenario quando il 15 ottobre 2011 la Fiat prova a penetrare al suo interno per impadronirsi dei mezzi, incontrando l’opposizione degli operai a presidio in quel momento.
Lo sa bene Dario Meninno, rappresentante sindacale della Fiom-Cgil, che quel giorno è presente insieme a Lello Colello, RSU Uilm-Uil, e ad altri sette operai. Simbolicamente presente, perché nel giro di pochissimi minuti il sito si riempie di altrettanti operai, immediatamente avvisati dai colleghi.
È la resa dei conti. In pochi, concitati, attimi si concentra tutto il senso di una battaglia, il momento atteso e temuto, immaginato nei modi più diversi durante le lunghe ore di guardia ai cancelli.
Fatto sta che i mezzi non escono, mentre direttore e capo del personale si danno alla fuga saltando la recinzione.
Un’incursione che mal si concilia con quanto accaduto soltanto la sera prima, durante l’ennesimo incontro tra sindacati e azienda, nel quale la Fiat sembrava invitare la controparte ad abbassare i toni dello scontro.
Per Dario, 54 anni, non ci sono dubbi: è stato colpito il cuore, e non per caso. Si è trattato di una provocazione mirata, costruita ad arte per dare una svolta ad una vicenda inattesa: la resistenza di decine e decine di persone ad un colosso. Persone che da circa quattro mesi non percepivano alcuno stipendio, ma profondamente radicate nel territorio. “La Fiat non ci ha presi neanche per fame”, dice Dario, “ci ha dovuti colpire alle spalle, ci ha dovuti sparare.”
Ricorrendo a questo espediente, “la Fiat ha dimostrato”, secondo Dario, “di aver perso per tattica, intelligenza e resistenza”. Si è dovuta fornire un pretesto per far partire le nove lettere di “sospensione cautelare”, destinate ai primi operai presenti davanti allo stabilimento quel giorno, fra i quali lo stesso Meninno. Da usare come arma di ricatto per chiudere una faccenda durata fin troppo. Lettere nelle quali sostanzialmente dichiara che, data la loro condotta, non ha più fiducia in quegli operai. E che si dichiara pronta a ritirare se finalmente si giunge alla firma di un accordo che prevede due anni di cassa integrazione ordinaria per cessazione attività.
Quando incontro Dario in un bar della provincia, siamo alla vigilia della firma.
Non ha trascorso una notte facile, dopo l’ultimatum della Fiat. O la firma o i provvedimenti disciplinari. Non teme per se stesso, ma si chiede quale sia la cosa più giusta da fare per il bene comune.
La nostra intensa chiacchierata è interrotta soltanto dai bip del suo cellulare. Dario lo estrae sistematicamente dalla tasca, legge l’ultimo messaggio, poi lo ripone. “E’ un compagno!”, spiega a un certo punto. Ogni bip è la conferma di un appoggio, una manifestazione di solidarietà, un incoraggiamento a non mollare.
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