Avevo scritto questo post all’incirca un anno fa, di fronte agli esiti delle primarie per la candidatura alla presidenza del Consiglio nel centro-sinistra e all’ampio consenso che stava agggregando il Movimento 5 Stelle. Ora, seppur in forma coatta e non per scelta, un altro leader nazionale dotato di indubbio consenso nazionale si colloca come Beppe Grillo e Matteo Renzi al di fuori del Parlamento, consolidando e arricchendo di nuove variabili una tendenza piuttosto significativa per il nostro sistema politico in fibrillazione. Rileggere le mie considerazioni di allora, quindi, può tornare utile per muoversi meglio nell’attualità.
Nella nostra storia politica, anche recente, è successo in alcuni casi che i leader più rappresentativi di forze politiche di dimensioni ridotte, specie agli inizi della loro avventura parlamentare, restassero fuori dalle Camere. Ma in generale ciò avveniva perché l’importante dirigente, pur candidatosi, non veniva eletto a causa dei meccanismi della legge di formazione delle assemblee rappresentative. Oggi, invece, si tratta di scelte deliberate. Entrambi, infatti, lo hanno dichiarato da tempo: Beppe Grillo non si candiderà mai in prima persona per nessuna carica, dando spazio a rappresentanti “a tempo determinato” selezionati “dal basso” (ma strettamente controllati dal vertice); Matteo Renzi non si è dimesso dalla carica di sindaco di Firenze in tempo per partecipare alle prossime elezioni politiche, e pur potendo contare sulla possibilità delle solite deroghe all’italiana ha già affermato di non essere interessato a una posizione di secondo piano sul piano nazionale se non potrà competere per la presidenza del Consiglio.
Renzi e Grillo hanno insomma preso una sorta di impegno con i loro sostenitori e con l’opinione pubblica, con gesti che intendevano avere, seppur in termini e in contesti diversi, un significato di rottura con un modo di intendere le cariche pubbliche essenzialmente strumentale, personalistico e utilitaristico. Per tutti e due, tornare sui propri passi sarebbe inopportuno se non impossibile.
Ma forse non avere un ruolo diretto in una delle istituzioni rappresentative che prenderanno vita a seguito delle elezioni del 2013 può essere anche conveniente. Per i prossimi anni, in effetti, la distanza tra le proposte programmatiche e le realizzazioni effettivamente possibili sembra destinata ad essere assai ampia. Un governo di coalizione sarà infatti destinato a estenuanti trattative e mediazioni tra idee e interessi diversi, e anche se (chissà come, viene da pensare) una formazione compatta riuscirà a ottenere una maggioranza stabile il governo dovrà per forza scendere a patti con organismi sovranazionali e internazionali che terranno sotto controllo il nostro operato economico. In una situazione di fibrillazione sociale e di volatilità del consenso come presumibilmente sarà quella dei prossimi anni, prendersi personalmente la responsabilità di portare avanti queste complesse mediazioni in prima persona significherà, presumibilmente, diventare il bersaglio di una serie infinita di critiche e recriminazioni da parte di milioni di elettori che avevano accordato il proprio sostegno a una formazione e, con tutta probabilità, non vedranno la soddisfazione di veder accolta alcuna delle proprie istanze, oltreché degli oppositori.
Stando a quanto possiamo vedere ora, Grillo e Renzi saranno le due personalità politiche che arriveranno al 2013 con il più ampio capitale di consenso personale. Il primo è l’elemento aggregante e la voce più rappresentativa di un movimento destinato, a quanto sembra, ad eleggere almeno un centinaio di parlamentari, e a diventare un gruppo parlamentare di grande peso. Il secondo si è recentemente dimostrato il dirigente del principale partito italiano dotato del maggior sostegno popolare, è stato capace quasi da solo di aggregare attorno a sé oltre un milione di elettori alle primarie in alcune aree nevralgiche per il consenso delle ali più progressiste del PD, e non potrà che acquisire un ruolo determinante nella scelta di un buon numero di candidature, affermandosi come un riferimento ineludibile per un partito che sicuramente, in qualunque forma si voti, si candida a diventare una pietra angolare del prossimo governo. Entrambi potranno quindi contare sulla possibilità di determinare l’orientamento di decine di deputati nel corso di un’attività parlamentare che si preannuncia complessa e destinata a confronti anche aspri, ma nessuno di loro sarà direttamente responsabile dei risultati e degli inevitabili compromessi. Nei confronti dell’opinione pubblica, quindi, quando per loro sarà opportuno Renzi e Grillo potranno atteggiarsi a “custodi” di accordi programmatici con gli elettori che grazie a loro rappresenteranno la stella polare per l’atteggiamento di diverse decine di parlamentari, ma dei cui parziali “tradimenti” i due leader non avranno colpe. Essi potranno quindi mantenere la loro relazione con i sostenitori, base fondamentale per la loro influenza sull’arena politica, pressoché intatta per le sfide successive.
Le analogie significative tra le figure di Grillo e Renzi finiscono qui. Le differenze di contenuti nelle proposte dei loro movimenti e l’atteggiamento verso le istituzioni sono chiare.
Il primo, in particolare, ha più volte dichiarato di voler superare i tradizionali meccanismi della democrazia rappresentativa per sostituirli con forme di gestione “liquida” dell’espressione popolare non ancora ben definite sul piano istituzionale (anche se finora si è quasi sempre accontentato di sostituire le imperfezioni della rappresentanza con gerarchie di fatto piuttosto opache), e per raggiungere il suo obiettivo ha dato origine a un movimento del tutto nuovo che a lui fa riferimento con caratteri che, vista la gestione del simbolo e del suo utilizzo, si possono definire nel vero senso della parola “proprietari”.
Il secondo è entrato fin dalla sua fondazione, ed è rimasto nonostante molti suoi sostenitori e detrattori lo ritenessero un corpo estraneo, nel Partito democratico, ovvero nella formazione che più di ogni altra in Italia ha resistito alla deriva della personalizzazione dell’identità politica, e che più di ogni altra forza politica rivendica con orgoglio la propria presenza sociale e la propria natura organizzativa plurale. In questo contesto, si è fatto interprete dell’idea di partito come “arena regolata” delle rappresentanze d’interessi e degli orientamenti democratici e progressisti, in grado di produrre candidature valide e politiche condivise rinunciando a una pedagogia di massa ormai inadeguata a una società aperta e culturalmente sviluppata. Quella forma-partito che Veltroni aveva posto alla base del PD nascente, ma che da tempo ha conosciuto una battuta d’arresto (senza peraltro sparire dall’orizzonte ideale dei democratici). Le primarie di domenica hanno però dimostrato che nella ricerca di supporto popolare Renzi si è mosso nel solco del partito d’integrazione in cui tanta parte della dirigenza del suo partito si è formata: lungi dall’affidarsi esclusivamente all’evento mediatico “all’americana”, ha intessuto rapporti con una rete di amministratori dotati di buon supporto sul loro territorio, muovendosi secondo coordinate che non a caso lo hanno portato a sfondare proprio nelle regioni in cui la cultura del partito socialmente presente e pervasivo è più radicata e ha determinato più profondamente i comportamenti diffusi.
Eppure, come si è detto, li accomunano il consenso personale travolgente, in grado di ridefinire addirittura i rapporti di forza nazionali, e la scelta di non candidarsi in Parlamento. È possibile individuare in tutto questo i tratti di una tendenza strutturale, che renda i loro casi qualcosa di più di semplici curiosità storiche? Giorni fa, sul Corriere, si interrogavano sulla natura e sul senso di questa decisione alcuni dei più autorevoli politologi italiani, limitandosi allora a riflettere sul caso Grillo. Piero Ignazi notava che, per questa e per altre specificità, il Movimento 5 Stelle “conferma quella somiglianza che ha […] con gli albori dei partiti verdi”, Gianfranco Pasquino era più articolato:
Ho l’impressione che Grillo scelga di rimanere fuori, se vogliamo essere cattivi, per fare il burattinaio dei suoi parlamentari, o, se vogliamo essere più indulgenti, perché è un regista e un regista spesso non fa anche l’attore. […] Di certo il fatto che il punto di riferimento del movimento non sia in Aula renderà difficili i processi decisionali, anche perché a volte non ci saranno i tempi tecnici per confrontarsi con la base. Il rischio è che alcune scelte prese in Aula possano essere poi smentite il giorno successivo sul blog dal fondatore del movimento. C’è il rischio che i deputati grillini vivano in una fibrillazione permanente, una possibilità che forse condurrà a una legislatura turbolenta.
A tutto questo, prendendo anche in considerazione il caso di Renzi che si è configurato più di recente nei termini che ho descritto, io aggiungerei un’ultima nota. Come aveva già fatto notare negli anni Cinquanta Maurice Duverger, e ha poi ripreso in termini più specifici Günther Roth nella sua definizione di “inegrazione negativa” relativa all’evoluzione della SPD nel secondo Reich, un particolare fenomeno di “trasferimento” della direzione del potere e del rapporto di rappresentanza al di fuori del parlamento ha già avuto luogo, quantomeno nell’Europa continentale, durante lo sviluppo dei partiti di massa tra fine Ottocento e inizio Novecento. La completa “sottomissione” del gruppo parlamentare alla direzione nazionale di questi partiti, custodi del consenso elettorale e popolare grazie alla solida organizzazione, rappresentava una novità rispetto alle dinamiche proprie dei partiti di rappresentanza individuale dei sistemi liberali classici, nei quali i parlamentari eletti si muovevano con piena libertà. D’altro canto, il gruppo parlamentare e in generale il personale dei partiti impegnato nelle istituzioni rappresentative sarebbero tornati ad avere autonomia e influenza propria successivamente, man mano che nel corso del tempo anche per le grandi forze d’integrazione di massa si apriva la possibilità di partecipare con un ruolo da protagonisti al governo del paese, dopo esserne stati per molto tempo esclusi perché considerati inaffidabili dal personale politico più tradizionale.
Quantomeno limitando il discorso alle democrazie contemporanee, si potrebbe concludere che il trasferimento extraparlamentare del potere decisionale derivato dal consenso popolare e dal supporto degli elettori tende a verificarsi in momenti di transizione della forma-partito prevalente e dei meccanismi di organizzazione e legittimazione del consenso. Oggi, come in forme e modi diversi avveniva circa un secolo fa, le istituzioni rappresentative costituzionali sono composte secondo modalità che sembrano avere legittimazione solo parziale e condizionata, mentre al loro esterno sono attivi laboratori ancora non pienamente funzionali di forme diverse ed emergenti di azione e partecipazione.