Da quando si è approvato il famigerato porcellum è spesso riemersa, come un fiume carsico, l’istanza di una seria riforma elettorale. Spesso si è trattato di fuochi di paglia, prontamente spenti dai conflitti di convenienze delle varie forze politiche. Nel confronto di ieri tra i candidati alla segreteria del Partito democratico, il tema è riemerso prepotentemente, e la novità più significativa è l’esistenza di una convergenza piuttosto chiara (e finora quasi inedita, almeno per gli ultimi anni) di tutte le anime del maggiore partito italiano su un’ipotesi di doppio turno di collegio. Appaiono insomma superate, almeno tra gli attuali quadri direttivi del PD, le tentazioni fino a non molto tempo fa piuttosto difuse per una soluzione che “moderasse” i limiti del porcellum mantenendo inalterato scrutinio di lista e base proporzionale nella ripartizione dei seggi, soluzione frequentemente giustificata agli occhi dell’ opinione pubblica dalla rinascita dell’ingenuo ed errato luogo comune che il proporzionale sia la forma di elezione più vicina al mitico “una testa, un voto”, e che porti invariabilmente a far “vincere chi prende più voti” (come se il sottinteso di quel chi fosse ovvio e, soprattutto, del tutto innocente). Siamo quindi di fronte all’occasione giusta per tornare a chiarire alcuni meccanismi che portano a guardare all’opzione del doppio turno di collegio come decisamente interessante per la nostra situazione, allontanandoci da certi espedienti retorici che, come ho scritto pochi giorni fa, sono utili soltanto a promuovere il sostegno artificiale a maggioranze neocentriste tanto poco oneste nel rapporto con gli elettori quanto rischiose per il pericolo che la loro assenza di reale consenso possa esplodere in una vera crisi di sistema.
Sul formarsi della “retorica proporzionalista” in Italia ha scritto uno dei suoi saggi più riusciti (La giustizia dei numeri, Bologna, Il Mulino, 1990) Maria Serena Piretti. L’autrice chiarisce l’importanza fondamentale della promozione progressiva degli strumenti del proporzionale (scrutinio di lista, circoscrizioni plurinominali, metodi di distribuzione dei seggi a soggetti collettivi identificabili che si facevano carico della presentazione delle liste) nel dare via via maggior senso agli allargamenti del suffragio faticosamente ottenuti tra fine Ottocento e inizio Novecento. In tal modo, infatti, si scardinavano i meccanismi notabilari di scelta e promozione dei candidati tipici dei collegi uninominali classici, e soprattutto si dava maggiore rilevanza e peso elettorale alla forma più innovativa della partecipazione politica nel nuovo secolo, quei partiti di massa che non offrivano tanto individualità catalizzanti di consenso quanto una partecipazione collettiva di strati sempre più ampi di cittadinanza alla vita istituzionale. Nel momento in cui il modello del partito d’integrazione di massa sembrava divenire il luogo “naturale” per la selezione delle classi dirigenti e la partecipazione politica, il sistema proporzionale a scrutinio di lista appariva uno strumento altrettanto naturale di voto, e si è finito per limitare la libertà dell’elettore alla scelta tra quale lista preferisce, al limite con un intervento sulle posizioni interne alla lista, ma senza sostanziali possibilità di riformulazione delle sue preferenze su candidati di più soggetti, riscrittura delle liste, elaborazione di “graduatorie” tra i diversi competitori, tutti elementi che pure erano proponibili in alcuni sistemi di transizione nei primi esperimenti di circoscrizione plurinominale.
Tutto questo non causa problemi in un modello di partecipazione politica in cui ogni elettore trova, tra i partiti che si presentano, quello che lo convince pienamente per uomini e idee, e quindi tutti votano con la stessa convinzione per quella forza politica che, sola, li rappresenta pienamente. Fermo restando che una situazione così perfetta non si è mai realizzata, sicuramente nell’“età d’oro” dei partiti di massa ci si poteva avvicinare assai più di oggi. I grandi soggetti politici di massa rappresentavano bene la nostra società grazie a una vera e propria capacità pedagogica che permetteva loro di strutturare il consenso attorno ad essi: attraverso tante diverse forme di coinvolgimento, di supporto, di proposta culturale, le forze politiche riuscivano soprattutto a fare in modo che i loro elettori sentissero proprio quelle esigenze ed esprimessero quelle richieste che essi erano pronti a portare alle istituzioni sotto forma di proposta politica.
Oggi i partiti non riescono più a compiere questo lavoro, in parte per una carenza di classe politica adeguata alle necessità, ma essenzialmente perché non è più possibile visti i profondi mutamenti sociali che hanno caratterizzato il nostro paese nei decenni. Da almeno vent’anni il rapporto con le nostre istituzioni pubbliche e con i soggetti che in esse dovrebbero rappresentarci deve essere ricostruito pezzo per pezzo, e utilizzare uno strumento, come il proporzionale a scrutinio di lista, che presuppone partiti forti e rigidamente organizzati nell’attrazione del consenso per funzionare a dovere, è un suicidio.Un suicidio perché nell’assenza della capacità pedagogica di cui ho parlato, che porta gli elettori ai partiti e spesso ad essi li lega, il voto al proporzionale non sarà rappresentativo nella grande maggioranza dei casi: a fronte dei pochi militanti convinti troveremo quelli che votano per il meno peggio, quelli che votano “contro qualcuno”, quelli poco convinti, quelli che sono rimasti indecisi fino all’ultimo per un’opzione o per l’altra, magari molto distanti, quelli che sono in parte d’accordo con quel partito ma non ne approvano le alleanze e quindi, la politica che sicuramente si troverà a fare, ecc. Il tutto senza che sia possibile distinguere in nulla i diversi atteggiamenti.
Una situazione sistemica che ha molti parallelismi con questa era quella della Francia della Quarta repubblica. Una “repubblica dei partiti” in cui il peso delle grandi forze di massa era sancito da un proporzionale rigido, ma che sembrava fin da subito stare stretta in un paese caratterizzato da variegate appartenenze politiche di natura territoriale e condizionate dalle reti di conoscenza personale, e la cui capacità rappresentativa non convinceva gli osservatori più attenti. Già nel 1950, in uno dei primi fondamentali studi scientifici dei sistemi elettorali (L’influence des systèmes electoraux sur la vie politique, Paris, Cahiers de la FNSP, 1950), i politologi André Siegfried e Maurice Duverger mettevano in evidenza queste difficoltà, anche in questo caso andando contro luoghi comuni che, purtroppo non si sono dissolti:
Se si vuole una rappresentazione esatta delle opinioni, senza dubbio la rappresentanza proporzionale non la fornisce più fedelmente dei sistemi apparentemente più grossolani come il maggioritario. […] Sotto il regime uninominale della III Repubblica, […] si votava meno per un programma che per una tendenza, e meno per una dottrina che per un temperamento politico. [Il rapporto con ciò per cui si votava] era concreto e umano. […] L’elezione portava a scegliere delle persone, non delle astrazioni. In regime di rappresentanza proporzionale, essa perde il suo carattere individuale per divenire soprattutto una delega in favore di un partito. […] La vitalità di tutto il sistema ne risente, perché il corpo elettorale non ha più la sensazione che sia in suo potere di cambiare gli orientamenti di fondo, e si è arrivati così a una sorta di stabilità dei partiti, che per certi versi somiglia a una sclerosi.
La previsione sulle difficoltà nei rapporti istituzionali col proporzionale si è avverata alla fine degli anni Cinquanta, come tutti sappiamo, e uno degli elementi fondamentali della V Repubblica è stato appunto il ritorno all’uninominale a doppio turno. Non quello della III Repubblica con ingresso libero al ballottaggio, che portava alla disorganizzazione della vita parlamentare, ma sistema “corretto” che limitava automaticamente l’ingresso al turno finale ai candidati di maggior successo. Insieme a un consolidamento costituzionale (più di prassi che di forma) del potere dell’Esecutivo, il nuovo sistema sembra aver migliorato molto le cose, dal punto di vista della funzionalità istituzionale. Ragionare sui meccanismi di questo sistema aiutare a capire quali vantaggi potrebbe portare anche al sistema politico italiano ritornare, importando questa forma, a quel percorso di impostazione dell’uninominale maggioritario che spesso si vuol far credere fallimentare, ma che in realtà è stato affossato dallo scarso coraggio, e dal quale derivano le poche cose buone che abbiamo visto in questo ventennio.
Partiamo dal risultato delle minoranze. In Francia, oggi, c’è una minoranza corposa, il Front National, che alle ultime elezioni politiche ha ottenuto circa il 13,6% dei voti, ma che in altre tornate ha fatto anche prestazioni assai migliori: col sistema elettorale francese, però, invece degli oltre sessanta-settanta deputati che un sistema proporzionale potrebbe garantirgli ha portato a Palais Bourbon solo due rappresentanti. Lasciando da parte la preoccupazione che un partito del genere può suscitare, in che modo le opinioni degli elettori possono essere rappresentate con una conformazione parlamentare del genere? Lo si vede, alle elezioni legislative ma anche e forse soprattutto nella prova senza appello delle presidenziali, anch’esse a doppio turno, quando non solo i gollisti, competitori del FN sul piano della conservazione, ma anche alcuni elementi del Partito socialista si trovano spesso a blandire quegli elettori sui cavalli di battaglia di Le Pen e famiglia, in vista di un ballottaggio dove il segnale che arriva ai partiti “istituzionali” è forte e chiaro. Se tra gli elettori di Marine Le Pen c’è chi intende modificare almeno in parte la linea politica dei partiti maggiori prima di votarli, ci può riuscire; se c’è chi intende protestare contro il loro immobilismo, ci può riuscire; se c’è chi vuole che essi prestino attenzione a certi mal di pancia quando si parla di Europa o di ordine pubblico, ci può riuscire. E ciò si verifica perché ogni elettore del FN ha la possibilità, al secondo turno, di vendere caro il proprio voto alle forze “legalitarie”.
Se invece tutta questa massa di scontenti, malpancisti, arrabbiati, votasse in questo modo con un sistema a riparto di base proporzionale e a scrutinio di lista, manderebbe all’Assemblea nazionale una valanga di deputati di cui condivideva solo in piccola parte la proposta politica, e vista la chiusura reciproca tra il FN e le forze della legalità repubblicana probabilmente avrebbe portato il Parlamento all’immobilismo, costringendolo a trovare una maggioranza di grande coalizione impostata su programmi contrapposti e incapace di decidere, fino alla scadenza elettorale successiva, quando questo immobilismo sarebbe stato imputato proprio alle forze che lo hanno dovuto subire. Insomma, rinunciare al proporzionale ha significato che la maggioranza degli elettori (l’85% contro il 15%), che si erano pronunciati per la salvaguardia dei valori repubblicani e per il pluralismo di un’Assemblea in cui la maggioranza doveva avere programmi precisi, ha impedito a un numero di francesi corrispondente se meno di un quarto di loro di imporre a tutto il paese il veto permanente. È questo concetto semplicissimo che si nasconde dietro il termine “funzionalità” delle maggioranze governative.
Dopo le elezioni di febbraio di quest’anno, in Italia il pasticciato riparto tra le liste fissato dal porcellum ci fa rischiare di vivere le conseguenze di una deriva simile a quella che ho tratteggiato, e ancora più grave sul piano numerico. Il tutto per il risultato abnorme di un movimento il cui consenso si è mostrato, alla prova dei fatti, fragile e volatile, probabilmente incapace di sopravvivere ai rimescolamenti del ballottaggio, quando cioè un buon numero di elettori sarebbero tornati alle urne consci di aver attribuito una preferenza “di pancia”, assai poco convinta e sostanzialmente assimilabile a una astensione più arrabbiata a un soggetto politico che può davvero rischiare di fare la sua parte al governo.
Anche questo ulteriore passaggio si può capire meglio tornando in Francia, dove il FN ha invece due possibilità per arrivare a giocare un ruolo di primo piano: o porre fine alle ragioni della sua preclusione nel normale dibattito, rendendosi presentabile per il gioco di alleanze e desistenze, e quindi diventando un partito profondamente diverso dall’attuale; o mostrare che quel consenso che si è coagulato non è un fuoco di paglia, fino a diventare diretto competitore di una delle forze maggiori che si contendono il governo ed, eventualmente, a sostituirla. Altrimenti la possibilità delle minoranze di esprimersi e di candidarsi alle votazioni, finanche ottenendo una tribuna parlamentare, non è assolutamente negata, e come abbiamo visto il comportamento elettorale degli elettori del FN non sarà sprecato anche se non si dovesse eleggere nessuno, perché avrà avuto un effetto condizionante sugli altri partiti.
Perché è questo il segreto di un sistema, come quello a doppio turno, che nella “selezione naturale” tra i soggetti politici premia quelli che hanno le maggiori capacità di apprendimento e di adattamento alla società, quelli che riescono perfino a interpretare nell’arco di due settimane i risultati del primo turno per arrivare al meglio al secondo. Nel lungo periodo, questo crea partiti non fissati sulle loro posizioni e sul tentativo di “creare” il loro elettore ideale anche quando questa possibilità non esiste più, come rischia di succedere col proporzionale, ma partiti “mobili”, che rimodulano continuamente il loro atteggiamento per incontrare il favore di quella maggioranza assoluta dei votanti senza il cui consenso il collegio non si vince, e non si vincono le presidenziali. In questo modo, insomma, le istanze della società vengono ascoltate ed elaborate dai partiti più adeguati a farlo e ad esprimere un governo, senza che le singole forze politiche si chiudano solo sull’ascolto dei problemi e delle proposte che esse stesse esprimono, nel modo autoreferenziale che caratterizza una politica come la nostra, incapace di uscire dal corto circuito per cui le stesse entità pongono a nome della società, attraverso la loro presenza sociale, le richieste che poi che poi si troveranno a dover esaudire come strumenti di rappresentanza istituzionale.
Questa capacità di muoversi nello spazio politico con questa disinvoltura (non perfetta, sia chiaro, e che va sempre incontro a criticità, ma che non ha confronti con quanto accade qui) da dove arriva? Sicuramente dalla necessità costante di rimettersi in discussione tra un turno e l’altro, ma anche, in termini più generali, da quell’efficace strumento di selezione della classe dirigente, che noi colpevolmente abbiamo abbandonato dopo aver timidamente provato a usarlo, che è il collegio uninominale. Esso garantisce quel rapporto più diretto tra eletto ed elettori, e quella necessità del deputato di confrontarsi con gli umori della piazza a cui deve chiedere la conferma eventualmente mutando gli indirizzi della sua azione politica sulla base dei rinnovati orientamenti popolari per non rischiare brutte sorprese alle urne, che anche nel 1950 Siegfried e Duverger consideravano un indispensabile elemento di vitalità, rispetto alla delega di questo tipo di rapporti alle segreterie di partiti che anche di fronte a una drastica riduzione della loro capacità rappresentativa difficilmente avrebbero potuto prendere provvedimenti in tempi brevi. I fatti, come ho detto, hanno dato ragione ai due analisti, con il collasso di un regime che era “repubblica dei partiti” solo a metà a causa della difficoltà per tutti a rinunciare a un glorioso passato di rappresentanza individuale di collegio, e che ha saputo migliorarsi col recupero di una elezione uninominale corretta al doppio turno per evitare i pericoli di frammentazione delle assemblee e di conseguente ingovernabilità.
Come nella Francia del passaggio tra IV e V Repubblica, così in un sistema come il nostro, da riformare alla radice, la soluzione per riuscire ad avere qualche risultato in questo senso può essere solo un sistema elettorale che incalzi i partiti e li costringa da un lato a una più oculata scelta degli uomini da mettere in lizza, dall’altro ad affidarsi di più a loro per evitare di perdere contatto con un elettorato che diventerebbe assai più sfuggente. I segnali di una buona riuscita dell’adozione anche da noi di un sistema uninominale modellato sul francese, tra l’altro, non mancano.
In primo luogo, secondoie un’indagine del 2000 pubblicata a suo tempo sulla Rivista Italiana di Scnza Politica, allora il numero di elettori che ricordava il nome almeno del candidato che aveva votato all’uninominale alle elezioni del 1996 era superiore al 33%, e oltre il 20% motivava la sua scelta anche attraverso un confronto tra i candidati proposti, per la scelta del migliore o per lo scarto del peggiore tra i rappresentanti delle coalizioni principali. Si tratta di cifre apparentemente minoritarie, ma che in realtà rappresentano una quota decisiva per la vittoria e la sconfitta praticamente in ogni collegio, che non erano esageratamente inferiori a quelle che si riscontrano nei sistemi uninominali europei più consolidati, e che probabilmente sarebbero state destinate a salire con una maggiore interiorizzazione del sistema, con una riduzione della polarizzazione nazionale del conflitto politico imposta dalla presenza “forte” di Berlusconi, e possibilmente con un miglioramento delle forme di accountability dell’azione dei deputati attraverso aggiustamenti istituzionali.
In secondo luogo come dimostra un’altra indagine più recente, pubblicata lo scorso anno sul sito di informazione e aggiornamento economico Lavoce.info, tra i vari sistemi elettorali che abbiamo provato in questo ventennio il doppio turno usato per sindaci e presidenti di provincia si è rivelato quello che gli italiani hanno mostrato di gradire di più e di capire meglio, e (per quanto è stato possibile verificare da alcuni dati bruti non ancora sufficienti a dare una posizione univoca) sembra rivelarsi adatto alla selezione di una classe dirigente comparativamente assai migliore di quella che viene fuori dal porcellum. Viene allora da chiedersi perché queste evidenze, che rappresentano un sunto di alcune delle acquisizioni dell’intenso dibattito politologico italiano degli anni 1992-2005, quando prima di una legge elettorale inventata in sede puramente politica e proposta per motivi strettamente contingenti sembrava aperta una porta di intervento degli intellettuali del settore sulle riforme istituzionali, sono prese in considerazione solo a sprazzi e tra mille opposizioni, ora che si sta discutendo a intermittenza di riforma elettorale. Una delle ragioni fondamentali è la stessa che avrà portato la maggioranza dei lettori che mi hanno seguito fino a qui a pensare che alcuni esempi che ho portato fossero incongrui visti i possibili esiti di una tornata elettorale svolta col doppio turno di collegio: in Italia, troppo spesso consideriamo sistema elettorale “buono” quello che pensiamo possa far vincere chi vogliamo noi.