Europa e il buco nero della deflazione
Europa e il buco nero della deflazione. L’Europa con un piede nella fossa della deflazione. Dagli ultimi dati diffusi dall’ufficio di statistica dell’Unione Europea con sede a Lussemburgo si evince come il tasso di inflazione dell’euro-zona, sebbene sia cresciuto nel mese di novembre allo 0,9%, rispetto allo 0,7% del mese di ottobre, rimanga al di sotto dell’obiettivo di crescita annua dei prezzi, fissato dalla Banca Centrale Europea al 2%.
A siffatto quadro, vanno ad aggiungersi inoltre le aspettative di ulteriore decremento dell’indice dei prezzi al consumo, considerato al netto dei costi legati all’energia, in ragione di un mercato del lavoro asfittico, nonché di una valuta come l’euro suscettibile di subire ulteriori apprezzamenti. A ben donde, la stampa britannica agita lo spettro della deflazione per l’Unione Europea, che aggraverebbe la condizione di indebitamento degli stati periferici dell’euro-zona, chiamati a risanare i conti in un contesto di perniciosa contrazione della domanda interna.
Nonostante ciò, le contromosse dell’Istituto con sede a Francoforte, presieduto da Mario Draghi, non sembrano del tutto sufficienti a scongiurare uno scenario deflattivo, considerato dall’economista americano Paul Krugman l’equivalente in ambito astrofisico del “buco nero”: un corpo celeste che attira nel suo campo gravitazionale qualsiasi materia o energia. Allo stesso modo, la deflazione, in ragione delle aspettative al ribasso dei prezzi dei beni e servizi che inducono i consumatori a differire nel tempo gli acquisti, innesca la contrazione della spesa per consumi ed investimenti da parte delle imprese, conducendo così il sistema economico verso la paralisi.
Un punto di non ritorno dell’economia da evitare finché si è in tempo, anche con misure non convenzionali. In tal senso, assurge a caso esemplificativo la coraggiosa politica messa in moto dal premier giapponese Shinzo Abe (cd. Abenomics), orientata ad imprimere uno shock significativo all’economia del Sol Levante, rimasta peraltro bloccata, dalla metà degli anni ’90 fino agli inizi dell’anno 2000, nella spirale deflazionistica.
Nonostante le politiche di quantitative easing poste in essere dalla Banca Centrale del Giappone ad inizio millennio, lo stato nipponico ha registrato fino al 2012 un tasso di inflazione molto basso. Tuttavia, nel solco scavato dall’Abenomics con le sue tre frecce, ossia politica monetaria ultraespansiva, indebolimento del tasso di cambio e stimoli fiscali all’economia, la politica di ritorno all’inflazione (cd. reflation) ha dato i propri frutti: l’indice core dei prezzi al consumo è cresciuto dello 0,9 per cento rispetto all’anno precedente. Inoltre, a spingere sul piede dell’inflazione giapponese contribuiscono i prezzi delle merci importate, così come il rimbalzo dei costi dell’energia importata.
Eppure, il Giappone si è posto il medesimo obiettivo di crescita dei prezzi dell’Unione Europea. La differenza, dunque, non può che essere ricondotta alle misure approntate dalle realtà economiche in esame: coraggiose e sfrontate, quelle del Giappone; timide e rassegnate, quelle del blocco europeo.