Nuovo rinvio, l’ennesimo di questa storia, per la trattazione degli ordini del giorno in materia di legge elettorale al Senato. L’apposita riunione della commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama era fissata per stasera alle 20, ma a questo punto slitta di nuovo e probabilmente non se ne parlerà prima di lunedì prossimo, a percorso congressuale del Pd terminato.
Per quanto se ne sa, il nuovo rinvio sarebbe stato determinato dall‘assenza di una base di accordo per continuare la discussione; sulla situazione, come era immaginabile, pesa anche la varietà di posizioni all’interno del Pd e l’assenza di una linea determinata nei giorni che precedono il voto alle primarie e la scelta del segretario nazionale fissata per l’8 dicembre. Anche il Nuovo centrodestra però non ha le idee chiare, mentre a Forza Italia non piace l’idea di tornare al Mattarellum (sia pure con varie modifiche) come proposto da Roberto Calderoli, che pure del Porcellum era stato l’estensore.
Il suo è uno dei due ordini del giorno che si dovevano discutere, insieme a quello del M5S che punta invece a introdurre un sistema simil-spagnolo. Se la situazione non si sbloccasse, il governo sarebbe pronto a presentare un disegno di legge. Intanto però un gruppo di deputati Pd vicini a Matteo Renzi (Michele Anzaldi, Luigi Bobba, Lorenza Bonaccorsi, Federico Gelli ed Ernesto Magorno) denuncia il flop dell’avvio della riforma elettorale al Senato: “Si sono persi mesi, l’accordo non è arrivato, è continuata la solita melina che va avanti dal 2011. Si passi subito alla Camera, lì ci sono i numeri per la riforma, non c’è tempo da perdere“.
Domani, intanto, è prevista l’udienza pubblica davanti alla Corte costituzionale per discutere la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione a partire da un ricorso presentato dall’avvocato Aldo Bozzi. Quella che doveva essere, secondo il Capo dello Stato, la “data di scadenza” entro la quale intervenire sulla legge, alla fine è arrivata. Non è però scontato che la Consulta nei prossimi giorni intervenga per bocciare parti del Porcellum, anche se sono quasi certamente incostituzionali.
Come aveva chiarito anche quasi due anni fa, bocciando le richieste di referendum del comitato Morrone-Parisi-Palumbo, la Corte non può demolire una norma “costituzionalmente necessaria”, se le regole che restano non funzionano da sole. Per una legge elettorale, si deve poter votare subito con la normativa di risulta: se il meccanismo si inceppa, la Corte non può togliere la norma (anche se è incostituzionale), ma può solo invitare il Parlamento ad agire. Anche se finora non è servito a niente.
Cosa potrà fare la Corte in concreto? Difficile pensare a una bocciatura totale del Porcellum (che nell’ordinanza non è richiesta) per la ragione appena vista. È meno improbabile un intervento sul premio di maggioranza, che la Consulta ha criticato più volte, ma anche qui non ci sono certezza: il problema non è il premio in sé ma l’assenza di una soglia per farlo scattare.
È difficile che la Corte si “inventi” una soglia che nel nostro ordinamento non c’è (la funzione “creativa” spetta al Parlamento), ma potrebbe eliminare le norme sul premio di maggioranza. Il nuovo sistema sarebbe un proporzionale (simile a quello in uso prima del 1993) ma con sbarramento: un sistema più equo, forse, senza però garanzia di governabilità. In più, essendo in corso la convalida dei parlamentari, la Corte dovrebbe trovare il modo per limitare l’efficacia della sua sentenza al futuro, per evitare che tutti i parlamentari eletti col premio di maggioranza perdano il seggio.
Quanto alle “liste bloccate”, non si capisce come la Consulta potrebbe intervenire: è difficile pensare che le bocci per intero (con cosa sarebbero sostituite?), ancora meno che possa reintrodurre il voto di preferenza (è una scelta politica, che spetta al Parlamento). Alla fine, non è impossibile che la Corte ammetta l’incostituzionalità, ma dica di non poter fare nulla (o trovi il modo di sbarazzarsi della questione fin dall’inizio, dichiarandola inammissibile), magari rivolgendo l’ennesimo monito al Parlamento.
Gabriele Maestri