Un timore mai uscito di scena
A Nord di Baghdad, la città di Baqubah è stata scossa di recente dall’ennesimo attentato di matrice confessionale. Si celebravano i funerali del figlio di un leader locale sunnita, quando un’esplosione interrompeva la cerimonia. Alcuni minuti dopo, del boato restava solo uno strascico di venticinque feriti e dodici cadaveri, che vanno ad incrementare il numero delle persone sequestrate e poi uccise nei giorni precedenti. Dieci anni fa l’Iraq veniva catapultato in una guerra che ha prostrato la popolazione e ne ha demolito la cultura; oggi non molto è cambiato, perché dietro vendette personali ed esecuzioni sommarie si addensa ancora la consapevolezza dell’umiliazione e del terrore che non passa.
Per anni un’insistente campagna di comunicazione ha fotografato Baghdad e Mosul, Kirkuk come Bassora, raccontando al resto del mondo l’insolita convivenza con la paura. Da qualche tempo, quel flusso di informazione ha subito frequenti battute d’arresto, merito forse dell’indifferenza e di un generale disinteresse che appaiono interrotti quasi sempre da meri fatti di cronaca.
Nel marzo 2003 l’operazione Iraqi Freedom siglava l’inizio della guerra preventiva degli Stati Uniti, una favola moderna che aveva convinto l’Occidente ad imbracciare le armi o a fornire un generico sostegno politico, se non militare. Col tempo, la presenza degli Usa in Iraq riceveva la legittimazione delle Nazioni Unite, ma la loro politica – volta a garantire la sicurezza del Paese – si rivelava nel frattempo un’idea grossolana.
Dapprima perché ci si rendeva conto che il cammino verso la democrazia, per quanto tortuoso, non può essere imposto da nessun altro Stato, in virtù del principio di autodeterminazione dei popoli; in secondo luogo, perché la rivelazione delle torture riservate ai prigionieri iracheni del carcere di Abu Ghraib controllato dagli Usa influenzava negativamente l’opinione pubblica.
Il 2003 è stato anche l’anno dell’attentato al contingente italiano in servizio a Nassiriya; un’altra patina di indignazione smorzava la credibilità della guerra e nel 2006 finalmente l’Italia ritirava le sue truppe dall’Iraq. Nel 2005 il Paese sperimentava le prime elezioni democratiche, seguite cinque anni più tardi dalle seconde. Il 2011 ha segnato il ritiro completo delle forze internazionali, che si lasciavano alle spalle un deserto di caos e ingovernabilità.
Una privazione gonfia di risentimento
L’ossessione della violenza è diventata una costante di cui non si riesce a fare a meno. Giusta o ingiusta che sia – e il confine è sempre molto labile – ogni guerra porta in dono illusioni che presto si traducono in guerriglie e persecuzione. La provincia di Mosul si presenta come una delle aree più violente del Paese, in cui la comunità cristiana è attualmente protagonista di un flusso migratorio che spinge numerosi fedeli in Giordania o in Libano, in Europa o negli Stati Uniti alla ricerca di un’esistenza nuova, da ricostruire fuori dalla propria patria.
Un recente rapporto dell’AINA (Assyrian International News Agency) ha inquadrato nel concetto di pulizia etnica le sopraffazioni che i combattenti di Al-Qaeda e altre milizie settarie compiono ogni giorno ai danni dei cristiani iracheni, obbligandoli a spostarsi in massa oltre la frontiera. In poco più di dieci anni, circa cinquecento mila fedeli avrebbero perso la vita in attentati o sparatorie, come accaduto alcuni giorni fa al giornalista televisivo Alaa Edwar.
Mentre Papa Francesco continua ormai da settimane a sostenere spiritualmente i cristiani di tutto il Medio Oriente, il Patriarca della Chiesa Cattolica Caldea, Mons. Sako già arcivescovo di Kirkuk, denuncia il progressivo appiattimento che la società irachena subisce da quando intere famiglie preferiscono trasferirsi all’estero. Coloro che restano, perché non vogliono o non possono lasciare il Paese, si trovano moralmente incapaci di reagire.
È con un velo di orgoglio misto a risentimento che Mons. Sako commenta un esodo forzato, ma di fatto sostenuto da tutte le ambasciate che facilitano la concessione dei visti di asilo per i migranti. Una pratica che non costituisce un vanto, semmai un servizio non chiesto, una benevolenza che lascia un punto interrogativo per la Chiesa Caldea, che riunisce circa l’80% dei cristiani iracheni, più di un milione fino alla deposizione di Saddam.
Ciò perché la fine della dittatura è stata uno scivolo verso nuove ondate di sangue, dettate da una presunta superiorità o furia integralista, che dir si voglia. Un panorama frastagliato di etnie, confessioni, religioni è interpretato come la cornice stessa dell’imperfezione; ad essere discriminati non sono solo i cristiani in fuga da una terra madre arida di comprensione, ma violente persecuzioni colpiscono anche sabei, mandei e yazidi.
L’immobilismo della provvisorietà
Non si è ancora pervenuti ad un accordo sul sistema elettorale, ma è certo che tra cinque mesi si svolgeranno le prossime elezioni democratiche. Per il momento, il problema fondamentale ruota attorno alla disattenzione del governo centrale nei confronti di un popolo a lungo provato da misure repressive e da una corruzione dilagante.
Non si tratta di una Chiesa a rischio o di un quartiere da non frequentare: gli attentati in un anno hanno provocato circa 6.500 vittime. Oltre al danno, c’è stata la beffa per le leggi antiterrorismo emanate dal governo, come per il piano per la sicurezza di Baghdad. Anche i programmi predisposti e in parte attuati dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea e dalle ONG operanti in contesti di forte discriminazione non sono stati finora risolutivi, in parte per ragioni culturali ostili a progetti di educazione alla tolleranza ed in parte per la debolezza politica del Premier Al-Maliki, sensibile ai condizionamenti di stampo sciita.
A questo proposito, un gruppo di senatori americani ha scritto al Primo Ministro per chiedere spiegazioni in merito all’esclusione dei sunniti dalla vita pubblica: una scelta che inevitabilmente alimenta le ritorsioni dei sunniti stessi, al potere nell’era di Saddam, che rappresentano poco più del 30% della popolazione.
Alla fine del 2013, le lancette dell’orologio segnano l’instabilità cronica di un Paese in cui a reagire è stato solo l’Islam dalle frange fondamentaliste, i simpatizzanti jihadisti che nel corso di pochi anni si sono organizzati su scala transnazionale ed oggi sono tornati a controllare le aree di confine con la Siria.