Una questione di scaletta che potrebbe apparire poco significativa, un aspetto marginale a cui non dare troppo peso. Ma in un contesto in cui i politici -e non la politica – hanno dovuto fare un passo indietro inchinandosi all’Europa, all’economia globalizzata ed ai tecnici anche gli aspetti di forma possono assumere un peso sostanziale.
[ad]Già da qualche anno, molti osservatori hanno sottolineato una mutazione sostanziale della struttura e della composizione del parterre degli ospiti nei talk show di approfondimento. Dal dibattito televisivo tra politici appartenenti ad opposti schieramenti si è passati a scontri titanici tra uno e più politici ed una serie di “tecnici” più o meno super partes. Da un conduttore che detta l’agenda dei temi in discussione ad uno con il ruolo imposto e supposto di semplice arbitro. Tra un rvm ed un collegamento satellitare lo spazio di confronto tra le soluzioni proposte da uno schieramento e dall’altro si è ridotto progressivamente, lasciando il campo ad un nuovo tipo di confronto televisivo. Abbandonato sostanzialmente lo scontro/confronto delle idee, si è passati infatti al modello “terapia di gruppo” in cui la gara da parte dei politici è a dimostrare la capacità di aver compreso le difficoltà del paese. Insomma, le soluzioni di merito offerte nei pochi minuti a disposizione sono diventate sempre meno fino a scomparire progressivamente. Le cause di questa mutazione sono molteplici e complesse da analizzare. Sicuramente hanno un peso le esigenze di spettacolarizzazione del dibattito pubblico, il modello di comunicazione molto caro a Berlusconi di sintesi programmatica per punti spot (si pensi all’argomentario per i candidati del 2001) e una generale disillusione da parte del pubblico per quanto concerne la reale efficacia del confronto tra soluzioni differenti al medesimo problema.
Sempre più si assiste dunque ad una rappresentazione proiettata al passato, in cui i giornalisti ospiti (spesso etichettati a ragione o a torto di destra o di sinistra) interrogano il politico di turno chiedendogli conto dell’operato pregresso. Rappresentazioni che si aprono al futuro solo grazie all’intervento di qualche tecnico illuminato che solitamente fa il pieno di applausi del pubblico in studio quando snocciola, con tono spesso da maestro munito di bacchetta, le soluzioni possibili alla contingenza del momento. I politici in studio solitamente annuiscono, urlano e si agitano cercando di conquistarsi la palma del migliore della puntata. Per ottenere il trofeo tutto vale e di scuole di pensiero in questi anni di talk ne abbiamo viste tante. Quello che importa è soddisfare le aspettative del “capo partito” e della parte di elettorato che in quel momento si rappresenta. In pochi si avventurano a spiegare al grande pubblico l’enorme complessità del realismo politico delle soluzioni praticabili; molti, invece, preferiscono limitarsi a dimostrare di aver ben compreso il problema nel tentativo di creare un rapporto empatico con chi ascolta da casa. E questo spesso è bastato.
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[ad]Dopo la nascita del governo Monti – il governo dei super tecnici – i politici hanno dovuto fare un altro passo indietro. E non solo in parlamento. Da protagonisti indiscussi della ribalta televisiva, sulla quale sfidarsi tra loro come romantici duellanti, ora sono relegati al ruolo di attori di secondo piano. La sfida non è più tanto tra destre e sinistre ma tra politici e paese. Cosi, i tristi eredi di un passato mediatico glorioso si trovano a dover fare fronte comune per difendersi dagli attacchi frontali di indignati, economisti, professori e giovani di varia estrazione. Il tempo concesso è ormai lo stesso per tutti: per chi solleva i problemi e per chi avrebbe il compito di trovare le soluzioni e che evidentemente non è considerato più in grado di leggere i problemi del paese.
La crisi di una classe politica si legge anche da questi piccoli segnali.