Cosa resta dopo la decisione sul Porcellum: il proporzionale sbarrato e la politica a pezzi
E ora, che succede? Il governo resta in piedi o cade? Il Parlamento si svuota o regge? Il primo attacchino che passa per Montecitorio domani può incollare sulla porta un manifesto con la scritta “Abusivo”? Sono domande possibili e, se si vuole, lecite, dopo la decisione della Corte costituzionale di ieri sulla legge elettorale. L’organo ha detto ciò che tanti costituzionalisti dicono da anni (che il Porcellum era ed è incostituzionale sotto alcuni aspetti) e che una marea di cittadini pensa da tempo.
Io per primo devo fare autocritica: non avrei scommesso su questo verdetto. Mi sarei aspettato – e l’ho scritto – una decisione di inammissibilità, giustificata con la natura tutta politica delle scelte in materia di legge elettorale: una decisione plausibile, che avrebbe permesso al primo nominato di turno di dire che, in fondo, il Porcellum non era una cattiva legge e poteva restare com’era. Ho sbagliato: niente inammissibilità o infondatezza, la Consulta ha detto che due punti qualificanti della legge Calderoli (n. 270/2005) sono da buttare perché contrastano con la Costituzione. Noi li abbiamo applicati non una, ma tre volte.
Cos’ha voluto dire davvero la Corte però? Al momento tra le mani e sui nostri schermi abbiamo soltanto la nota stampa, breve ed essenziale, fin troppo; la sentenza integrale non esiste ancora, arriverà “nelle prossime settimane”, probabilmente con l’anno nuovo, forse a metà gennaio. C’è da giurarlo, la scrittura sarà un parto sofferto, frutto di una limatura cui vorranno partecipare tutti i giudici: uscirà un testo in cui, per dirla con il costituzionalista ed ex senatore Stefano Ceccanti, “anche le virgole contano”, così come le parole che ci saranno e (ebbene sì) anche quelle che mancheranno.
Per capire esattamente cosa resterà del Porcellum e che ne sarà degli eletti (e della legislatura), bisogna per forza aspettare la sentenza; nel frattempo, qualche riflessione (e predizione) si può fare. Il gioco è facile per il premio di maggioranza: dal 2008 la Corte ha ripetuto almeno quattro volte che si rischiava seriamente l’incostituzionalità ad attribuire il 55% dei seggi (a livello nazionale alla Camera, a livello regionale al Senato) senza prevedere una soglia minima.
Toccava al Parlamento farlo, ma non può essere la Corte a colmare la mancanza: nessuna delle nostre leggi elettorali prevede qualcosa di simile e, visto che le leggi in Italia non le fa la Consulta, non le si può chiedere di inventare una soglia dal niente. L’unica soluzione per rimediare all’incostituzionalità è cancellare il premio da capo a piedi e dal comunicato pare sia andata così. Bisogna però aspettare la sentenza integrale per capire come finirà per i deputati (tutti di centrosinistra, compresa Sel) e i senatori (di una parte e dell’altra) eletti grazie al premio e non ancora proclamati: se non ne hanno già parlato, i giudici ci penseranno da domani.
Il punto sulle “liste bloccate”, invece, sembra un rebus. In base alla nota, le norme sono state dichiarate illegittime “nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza”; la formula però nasconde alcuni problemi. Intanto, quando la Corte costituzionale smonta una norma “nella parte in cui non prevede…” di fatto aggiunge una regola che non c’era e serve a sanare l’illegittimità (si parla infatti di “sentenze additive”). Perché la Consulta non invada troppo il campo del Parlamento, però, è necessario che il giudice che le chiede di intervenire indichi già prima qual è la norma da aggiungere.
Spulciando l’ordinanza della Cassazione, i giudici non chiedono mai espressamente di introdurre le preferenze: questo sarebbe bastato a considerare inammissibile la richiesta di bocciare le “liste bloccate”. La Corte costituzionale però ha ammesso la richiesta e, limitandoci al testo della nota, pare abbia colpito in generale le “liste bloccate”, come se fossero sempre incostituzionali. Ma allora sarebbe incostituzionale pure il Mattarellum, che alla Camera prevedeva liste “bloccate” nella parte proporzionale. Nessuno si era scandalizzato, perché in lista al massimo c’erano 4 nomi mentre nel Porcellum possono essere dieci volte di più, ma nell’ordinanza non si faceva un problema di numeri. Si parlava di liste “bloccate” e basta.
Bisogna aspettare allora la sentenza, anche per capire un’altra cosa. La Corte ha introdotto la preferenza, ma tra le norme che la Cassazione ha chiesto di cancellare non ci sono quelle che spiegano come è fatta la scheda elettorale. In quelle che abbiamo usato ancora a febbraio ci sono solo i simboli, non c’è spazio per la preferenza: questo significa che la legge ora funziona solo in teoria, ma per la pratica mancano dei pezzi. A questo punto, è probabile che la Corte abbia aggiunto solo il principio delle preferenze, lasciando al Parlamento il compito di dettare le regole per attuarlo.
Riassumendo, il giudice delle leggi non ha smantellato per intero il Porcellum (e quindi non ha neanche fatto rivivere il Mattarellum), ma ne ha smontate alcune parti. Il sistema che resta in piedi somiglia a quello del 1992, ossia un sistema proporzionale quasi puro, con una preferenza; unica novità, gli sbarramenti per accedere alla divisione dei seggi (è presto per capire se resteranno soglie diverse per forze singole e coalizioni). Un sistema che sarebbe piaciuto ai partiti della prima Repubblica (e a ciò che di loro resta, Udc in primis), ma che nel 1993 gli italiani avevano bocciato con un referendum, da cui poi di fatto è nato il Mattarellum.
Certo è che da questa decisione la politica, pressoché tutta, esce con le ossa rotte: chi siede in Parlamento dal 2006 sta lì in virtù (o per colpa) di una legge pesantemente viziata e non ha saputo (o voluto) sanarla o toglierla di mezzo, facendone una nuova. Paradossalmente, l’unica certezza che oggi abbiamo è che toccherà quelle stesse persone intervenire, o attuando il principio dettato dalla Corte sulle preferenze (e, magari, rimettendo il premio di maggioranza ma con la famosa soglia) o scrivendo una legge nuova, purché sia rispettosa del dettato costituzionale.
Nell’uno o nell’altro caso, ci vorrebbe un accordo che sembra lontano anni luce. E allora viene il sospetto che la Consulta – a costo di usare un’immagine macabra – abbia deciso di regalare una pozione alle Camere (ben confezionata, per carità) e, di qui a metà gennaio, si preoccupi di precisarne la ricetta (con la sentenza). Le Camere dovrebbero seguire la ricetta per rimediare alla malattia che le affligge dalla nascita, per poi trangugiare la pozione e annientarsi, con la complicità obbligata del Presidente della Repubblica che dovrebbe sciogliere il Parlamento per far votare con la nuova legge. I partiti, a questo punto, hanno solo l’ultima occasione di uscirne con un briciolo di dignità: hanno tempo fino alla pubblicazione della sentenza per pensarci su.