Un grande discorso di Mandela. 10 Febbraio 1985, una domenica, nello stesso stadio di Soweto che martedì ha riunito una novantina di leader mondiali, si festeggia il premio Nobel ottenuto da Monsignor Desmond Tutu per la sua lotta contro l’apartheid.
Lo stadio è gremito e la folla festeggia. Si sa che parlerà la figlia di Mandela, Zindzi, 25 anni, e che pronuncerà un discorso che il padre, dal carcere, le ha fatto avere per rispondere alle parole pronunciate dal premier P.W.Botha che aveva detto alla radio e al mondo che “In verità non è il governo sudafricano a impedire la liberazione del signor Mandela. E’ lui stesso. Noi siamo pronti a liberarlo a condizione che respinga in modo incondizionato la violenza come strumento politico”.
La risposta di Mandela e degli altri compagni in carcere è fortissima e, pronunciata dalla voce ferma e giovane della figlia, ancora più forte. La riporto letteralmente perché mi sembra uno dei momenti più forti della lotta contro il regime segregazionista sudafricano e uno dei fatti che maggiormente mostrano la personalità e gli ideali di Mandela e degli altri compagni che, con lui, hanno condiviso sofferenze, carcere e speranze.
Zindzi appare sul palco con una maglietta bianca che annuncia la fine dell’apartheid e rivolge alla folla il saluto dell’ANC, pugno alzato, in silenzio. E poi le parole che è come se provenissero dalla profondità delle galere del regime:
“Mio Padre desidera innanzi tutto rivolgere le sue più fraterne congratulazioni a Monsignor Tutu perché ha fatto chiaramente sapere al mondo che il premio Nobel per la pace appartiene a tutti voi, popolo di questo paese. Noi abbiamo rivolto innumerevoli richieste al regime perché abbandoni la violenza e si impegni in una trattativa da pari a pari. Non abbiamo mai ricevuto risposta. Abbiamo ricevuto altra violenza. Ora sta a Botha rinunciare alla violenza, sta a lui annunciare che abolirà le vergognose leggi dell’apartheid, sta a lui ripristinare i diritti dell’ANC che incarna la lotta del popolo africano per la libertà, sta a lui liberare tutti quelli che sono imprigionati, banditi, esiliati. Sta a lui garantire al popolo intero una attività politica libera, affinché possiate essere voi stessi a designare i dirigenti che devono guidare il paese. Come voi tutti anche io desidero essere libero, ma la vostra libertà mi è ancora più cara della mia. Perchè io non sono il solo ad avere sofferto per questi interminabili anni perduti. Tanti uomini sono morti da quando sono imprigionato. E ho un dovere verso le loro vedove, i loro orfani, le loro madri e i loro padri, feriti e gettati per sempre nel lutto dalla loro scomparsa. Non amo la libertà meno di quanto la amiate voi, ma non mercanteggerò sul prezzo di questa libertà e nemmeno sul diritto del mio popolo a questa libertà. Che offerta mi fa oggi il capo dell’apartheid se l’ANC, voce del nostro popolo, rimane fuorilegge? A che cosa assomiglia questa libertà quando è necessario ottenere un timbro sul passaporto per cercare lavoro? Di quale libertà mi si vuol parlare quando non si rispettano né la vita, né i diritti elementari dei miei fratelli in questo paese? Solo un uomo libero può negoziare. Rispondo al signor Botha che non posso e non voglio impegnarmi finché voi, popolo tutto, e io non saremo liberi. La vostra libertà e la mia sono indissociabili! Ma vi faccio una promessa: sarò di ritorno fra voi, perché presto saremo liberi!”.