Un tempo base costitutiva della liberal education a cui aspiravano gli studenti che si avvicinavano alla formazione superiore, il sapere umanistico vive oggi una profonda crisi nel suo ruolo nelle strutture educative non solo italiane. In questi anni un numero crescente di prese di posizione sulle pubblicazioni professionali nel settore della higher education stanno mettendo in evidenza come, da un lato, i percorsi d’istruzione incentrati sulla specializzazione nelle humanities appaiano sempre più inadeguati alle domande di carriera nel mondo del lavoro contemporaneo, e quindi tendano a ridursi come prima scelta degli studenti, dall’altro i cultori del sapere storico, filosofico e letterario non riusciti quanto una solida base di conoscenze e di capacità di orientamento umanistico sia necessaria anche agli aspiranti professionisti.
Il problema è stato trattato anche nel contesto italiano, con una profondità che solitamente manca ai nostri scadenti articoli di giornale dedicati alla cultura accademica, dal volume Parole nel tempo di Francesco Benigno, un tentativo di ridisegnare una mappa concettuale del sapere storico in un mondo in cui ormai il senso comune del passato è affidato alla memoria, alla fiction o alla distorsione dei leader ideologici. Proprio ieri l’autore ha presentato la sua opera alla Scuola Normale, in un seminario di studi a cui hanno partecipato i titolari delle cattedre storiche dell’istituto.
Di fronte a simili riflessioni, mi sono tornate in mente alcune considerazioni sulla questione che avevo svolto ormai oltre un anno fa, ma che ancora conservano la loro attualità soprattutto di fronte all’incapacità di chi intende progettare le strategie per le nostre istituzioni educative di invertire una tendenza nell’opposizione alla quale si dovrebbe invece essere più decisi. Proprio pensando al ruolo che queste idee generali possono avere per valutare, e possibilmente ripensare, le politiche universitarie oggi messe in opera, la propongo in questa sede.
“Papà, a che cosa serve la storia?”. Per rispondere a questa domanda del figlio, Marc Bloch impostò quella che forse è la più matura riflessione sullo statuto della disciplina proposta nell’ultimo secolo. E dare soddisfazione a tale curiosità gli appariva così importante, che avrebbe continuato a pensarci anche mentre combatteva nella resistenza ai nazisti, durante il conflitto che lo avrebbe condotto alla morte impedendogli di concludere la suaApologia della storia.
Il testo è stato letto da generazioni di studenti, all’università o al liceo: eppure, non sembrano essere del tutto entrate nel sentire comune le ragioni addotte dall’autore sull’importanza essenziale della riflessione storica, e in generale di tutte quelle discipline che dalla storia mutuano la base operativa, che si occupano della nostra eredità intellettuale e delle testimonianze culturali del passato che hanno contribuito a formare il nostro modo di pensare, e che solitamente vengono raccolte nell’insieme delle discipline umanistiche. Anche nei casi più meritori di sensibilizzazione contro i tentativi di attentato ai nostri centri di produzione della conoscenza, un numero crescente di persone percepisce come comparti “produttivi” dell’attività culturale e accademica quasi soltanto i centri di ricerca tecnologica e medica a più o meno immediato coinvolgimento applicativo, e gli studi nelle scienze “pure” che più o meno direttamente concorrono a fornire gli strumenti concettuali di base a tali aree.
Non mi riferisco, sia chiaro, solo ai tanti esponenti politici (per lo più raccolti nel partito ininterrottamente al governo in Italia da oltre quattro anni) che sostanzialmente considerano inutili corsi di studi e progetti di ricerca di cui non capiscono il titolo. Sempre in Italia, molti tra i più risoluti “giustizieri” delle presunte “concorsopoli” o “parentopoli” universitarie ritengono, spesso in buona fede, che la scarsa qualità del reclutamento dipenda in qualche modo dalla presenza negli atenei di settori di studio dotati di uno statuto epistemologico che non riconoscono perché dissimile da quello delle scienze naturali, dimostrando sovrano disprezzo proprio per uno dei capisaldi dell’agire scientifico: il rispetto dei dati di fatto. Anche sul piano internazionale, la crisi economica ha spesso portato alla ricerca rapida e superficiale di settori di formazione e ricerca da “tagliare”, e spesso anche fuori dei nostri confini ci si è chiesti “a cosa servisse” trastullarsi col passato. Nel 2011, l’allora presidente dell’American Historical Association Anthony Grafton ha provato con il suo discorso di insediamento a rispondere ancora una volta a queste sollecitazioni, attualizzando alla situazione della nostra società interconnessa e multimediale evidenti echi blochiani:
Studiando la storia al meglio delle nostre possibilità, noi ricerchiamo una conoscenza esatta e precisa, e insegniamo ai nostri studenti, a tutti i livelli, a fare lo stesso. Garantiamo la sopravvivenza di un modello d’indagine intettualmente onesto e basato su materiali di prima mano. Questa severa formazione ai principi della ricerca della conoscenza è importante: è importante più che mai nell’attuale società dei media, nella quale le bugie sul passato, come le bugie sul presente, viaggiano assai più veloci di prima. Il problema è che la nostra ricerca non prevede il ritrovamento di un Santo Graal. Le conclusioni migliori a cui possiamo giungere, sottoponendo le nostre prove e le nostre affermazioni all’esame più duro e scrupoloso, saranno provvisorie. Saremo in disaccordo coi nostri colleghi, e la prossima generazione sostituirà le nostre conclusioni, e le loro, con altre ancora. Tuttavia, il fatto che la ricerca della verità vada avanti – e con essa l’energia e l’onestà intellettuale che i ricercatori impiegano – è estremamente importante, per il bene della cultura.
Difficilmente si sarebbe potuto cogliere il punto con altrettanta chiarezza e pulizia. Lo studio della storia e della cultura letteraria, filosofica, artistica del passato non è curiosità antiquaria, ma è il miglior esercizio per pensare con la propria testa: per sapere che le interpretazioni che i mezzi di comunicazione ci propongono hanno un’origine e degli scopi, e che quindi devono essere destrutturate e comprese nei loro elementi costitutivi prima di essere assimilate acriticamente; che ogni azione sociale o proposta politica si pone in un contesto, all’interno del quale deve essere soppesata e compresa; che le idee e i giudizi che oggi ci sembrano ovvi perché costitutivi del nostro modo di pensare hanno un inizio, hanno attraversato epoche assai diverse dalla nostra, sono stati soggetti a modifiche e a ricostituzioni che non li rendono mai “naturali” e quindi accettabili senza supplementi d’indagine; che abbandonare questo modo di ragionare e di agire è un impoverimento per ogni individuo e per la società nel suo insieme; che la sottrazione di questi schermi culturali che ci garantiscono la possibiltà di dubitare e riesaminare in continue prove d’appello il mondo che ci circonda rischia di metterci semplicemente in balia di chi riesce a diffondere il suo messaggio con maggiore potenza o con le parole più belle.
Tutto semplice, chiaro e condivisibile, quindi. Eppure, niente sembra tanto lontano dalla situazione italiana. Come dicevo, molto spesso le discipline umanistiche sono le prime a finire nel mirino dei promotori dell’austerità di spesa nella cultura. Sarebbe molto comodo dire, magari citando qualche nome altisonante come Gramsci che ci sta sempre bene, che questo avviene per un chiaro progetto di impoverimento culturale, e quindi di potenziamento delle forme di controllo sociale, del nostro paese. In realtà questa spiegazione “militante” non regge alla prova dei fatti. Una delle ragioni fondamentali per cui il comparto umanistico è nella bufera è il fatto che, negli ultimi decenni, esso ha fallito i suoi compiti fondamentali, e nella condizione in cui si trova non appare in grado di assolvere ad essi.
Tanto per cominciare, la prospettiva illustrata da Graftonconcentra la sua attenzione sulla stretta correlazione traricerca e didattica nelle scienze umane: obiettivo fondamentale dello studio della storia (per restare dove anche Grafton stesso è partito) è la possibilità di offrire a tutti una chiave per leggere il mondo nella sua complessità. Le attività più puntuali di ricerca e di ricostruzione documentaria hanno una loro ragion d’essere in primo luogo come contributo a questa missione di formazione, sia sul piano diretto (attraverso i risultati veri e propri dell’azione di ricerca e il loro apporto alla migliore conoscenza del passato), sia soprattutto su quello indiretto (come offerta ai discenti di un modello di lavoro storico, le cui procedure essenziali potranno essere ripetute anche al di là dell’ambiente protetto della ricerca accademica, fino a diventare nel quotidiano rapporto con l’universo sociale in cui siamo immersi l’esempio di partenza attraverso cui si potrà affrontare l’analisi degli eventi e delle affermazioni che arrivano a toccarci). Detto in altri termini, a differenza di quanto accade in altri settori, i prodotti della ricerca storica avranno valore solo se messi in circolo nella cultura diffusa, come base formale o di contenuto per lo sviluppo della coscienza collettiva. Una medicina che cura una grave malattia, o un sistema operativo superefficiente, saranno utili e apprezzati anche se le persone “comuni” non avranno idea di come sono stati creati e di come funzionano; un prodotto nato come contributo al sapere umanistico non potrà mai essere fine a se stesso allo stesso modo, e dovrà camminare sulle gambe del maggior numero possibile di persone che vi si avvicinerano e vi trarranno giovamento per la loro formazione.
Nel nostro paese, sulla scorta di un modello di formazione all’alta cultura imposto troppo frettolosamente all’area delle scienze umane, per decenni ricerca e didattica sono state rigidamente separate nei percorsi accademici. L’insegnamento, anzi, ha rappresentato sempre più spesso un elemento accessorio, in cui spendere solo le energie residue rispetto a un’attività di sviluppo della conoscenza che, per le caratteristiche delle discipline in questione, ha finito troppo frequentemente per ridursi a un arricchimento culturale personale o riservato alla cerchia degli addetti ai lavori.
A ciò si è aggiunto il fatto che la rigida recinzione dei corsi di studi all’interno delle facoltà ha spesso riservato un approccio approfondito alla cultura umanistica solo nella facoltà preposta alla riproduzione del personale docente e ricercatore per l’università e per la scuola secondaria. Il risultato è stato un circuito autoreferenziale perverso: un sapere la cui efficacia dipendeva dalla diffusione e dalla possibilità di impatto generalizzato è diventato appannaggio di un gruppo di studenti e studiosi ben definito, ma comunque troppo numeroso per trovare un futuro professionale nella promozione delle discipline storico-letterarie a tempo pieno, e privo di un “capitale culturale” professionalizzante alternativo da spendere altrove.
Così, da un lato, la facoltà di Lettere ha maturato evidenti difficoltà nel dare a chi ha scelto di dedicarsi alle sue materie un collocamento adeguato. Dall’altro, per la chiusura tra i diversi percorsi formativi che le tante riforme degli ultimi anni non hanno quasi scalfito, quelle stesse materie sono oggetto al di fuori dei percorsi di studio specifici di un approccio superficiale o quasi nullo. L’istruzione prettamente descrittivo-normativa delle scuole secondarie, che spesso rappresenta l’ultimo contatto serio e impegnativo con le discipline umanistiche per tanti studenti che poi compiono (giustamente) altre scelte di alta formazione professionale, chiaramente non è sufficiente a garantire ai giovani la dimestichezza con il ragionamento astratto e la riflessione sui prodotti documentari necessaria a non cadere preda di valutazioni frettolose e ingenue sulle proposte interpretative veicolate dai mass media. E del resto anche gli operatori della comunicazione, che pure hanno quasi sempre ricevuto una formazione superiore di buon livello generale e che dovrebbero rappresentare il primo fondamentale filtro per evitare la circolazione massiva di prodotti culturali scadenti e privi di credibilità, dimostrano di avere una bassa soglia di discernimento e una scarsa capacità di distinguere tra conclusioni di natura critica e prospettive interpretative infondate (e nella peggiore delle ipotesi divulgate con secondi fini di natura politico-ideologica).
Proprio nel centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana, si è avuto modo di notare un fenomeno allarmante: il pur imponente sviluppo di studi storico-culturali sull’idea di nazione ottocentesca e sulle sue implicazioni nella cultura materiale, nei comportamenti collettivi e nell’autorappresentazione sociale (ben rappresentati dai lavori di Alberto Mario Banti, forse il più autorevole studioso di Ottocento italiano a livello internazionale) ha ricevuto dall’opinione pubblica un’attenzione del tutto imparagonabile al consenso sorto quasi senza ostacoli attorno a un pamphlet (Terroni di Pino Aprile) in cui dati economici male interpretati e finache errati, e serie statistiche storiche di cui evidentemente si ignorano le procedure di composizione, sono combinati con la ripresa attualizzante di posizioni polemiche dell’epoca risorgimentale, nel tentativo nemmeno troppo velato di costruire una “tradizione inventata” che forse gli storici del futuro potranno considerare un interessante oggetto di studio, ma che oggi risulta quanto mai preoccupante per la capacità di presa in una società che si definisce culturalmente sviluppata.
La soluzione potrebbe essere una revisione completa delle funzioni delle discipline storiche nella formazione superiore, con l’esposizione di un numero maggiore di studenti ad esse e la modifica dei corsi di laurea in un senso più aperto alla commistione di competenze, soprattutto di fronte allo sviluppo sempre più massiccio anche in Italia della formazione post-laurea come passaggio specializzante obbligato. In questo contesto, poi, probabilmente anche la didattica della secondaria potrebbe concentrarsi più sull’introduzione agli strumenti di analisi e di riflessione che non al mero apprendimento manualistico. Tra l’altro un simile punto di arrivo ci porterebbe, in poche parole, a dare soddisfazione ai criteri di apprendimento e di sviluppo delle conoscenze di base più importanti per i test di valutazione internazionali, senza necessariamente passare per il “collo di bottiglia” di una preparazione liceale finalizzata più alla soluzione di quiz preordinati che allo sviluppo delle attitudini e delle conoscenze. Ma intanto, tra mediane pazze, facoltà che diventano dipartimenti per non cambiare, e test di ammissione ai tirocini preparati da persone a cui probabilmente farebbe bene ripetere qualche anno di liceo, difficilmente la discussione sulle istituzioni culturali in Italia raggiungerà mai questi livelli.