Don Haskins e la partita che cambiò tutto
Don Haskins e la partita che cambiò tutto [Questo racconto è dedicato alla memoria di Nelson Mandela e alla sua lotta contro l’ignoranza e la disuguaglianza.]
“I negri sono atletici e sanno giocare, ma non possono guidare una squadra. Non sono in grado di reggere la pressione. Non sono abbastanza intelligenti.”
Quello che a prima vista può sembrare un aberrante estratto di qualche fanatico delle toghe bianche e dei cappucci a punta della stessa tinta, è in realtà l’argomento di una qualsiasi discussione da bar tra persone che anche noi non avremmo a quei tempi esitato a definire “perbene”. E dicendo “quei tempi” non parliamo di medio evo o di epoca coloniale, purtroppo. L’amara realtà è che ci si poteva ritrovare in una discussione con argomentazioni simili, o peggiori, in qualsiasi zona degli Stati Uniti, con particolare inclinazione in alcuni stati del sud che certe idee non le hanno accantonate con particolare vigore neppure oggi. L’anno in particolare di cui parliamo è il 1966, nella decade segnata da Malcom X e Martin Luther King. Gli afroamericani non se la passano particolarmente bene, anche in ambito sportivo. Nel torneo di college nazionale, per esempio, vige una legge non scritta secondo cui si debba far giocare UN afroamericano in casa, DUE in trasferta e TRE quando la partita è ormai compromessa. Poco più di cinquant’anni fa, ma sembra preistoria, e in un certo senso lo è. Pensate che non esistendo internet, tv via cavo e altre meravigliose modernità, gli scout devono muoversi in base ai tabellini che leggono sui giornali, e c’è qualcuno che addirittura propone di mettere un asterisco accanto ai giocatori neri perché, altrimenti, si rischia di fare tanta strada per niente.
In questo contesto si ritrova Donald Lee Haskins, per tutti Don, allenatore di un minuscolo college, Texas Western, che nel 1967 diventerà poi Texas El Paso. Se volevate una collocazione geografica precisa, eccovi serviti. L’università, per via di scarse possibilità economiche, ma anche per l’enorme presa che il football ha da sempre in quello stato rispetto al basket, già all’arrivo del coach (1961) aveva ben tre giocatori di colore tra le sue fila. Haskins ebbe subito buoni risultati e qualche apparizione al torneo NCAA, ma per provare a vincere serviva un salto di qualità che con il reclutamento tradizionale non si riusciva ad ottenere, complice il fatto che i migliori giocatori -bianchi- sceglievano i college maggiori come Duke, Kansas o Kentucky. Nel 1965 Haskins – e torniamo all’inizio della nostra storia- decide di fare allora quello che mai era stato nemmeno tentato prima, e inserisce nel roster della squadra ben SETTE afroamericani, suscitando perplessità, clamore, ovviamente odio e pure una enorme dose di scetticismo. I suoi “miners” però vincono 23 delle 24 partite di stagione regolare e guadagnano la terza testa di serie nel torneo finale (le posizioni vengono stabilite da un apposito comitato ogni anno). La squadra supera tutti gli avversari battendo anche la fortissima Kansas di Jo Jo White (futura stella NBA) dopo due overtime e si ritrova in finale contro la favorita del torneo -oltre che rigorosamente bianca- Kentucky di Adolph Rupp (santone degli allenatori collegiali) e Pat Riley (sì, quel Pat Riley, che prima di diventare un super allenatore e general manager in NBA era stato eletto all american come giocatore). La storia che fino qui ha tantissimo di bello da raccontare già così, diventa leggendaria quando Haskins decide di sfidare tutto e tutti, dalle regole non scritte ai pregiudizi, e nella finale fa scendere in campo esclusivamente i suoi sette giocatori di colore. E vince.
Quella partita è ricordata ancora oggi come una delle più importanti (vogliamo dire LA più importante?) del gioco della pallacanestro. Grazie soprattutto al carattere e alla determinazione di un uomo che ha saputo guardare al di là del colore della pelle, ma andando alla semplice ricerca di talento, velocità e abilità, lezione che solo in apparenza può sembrare banale, e che di certo non lo era in quei tempi. Haskins, che si è spento nel 2008, si ritirò nel 1999 dopo 38 stagioni da capo allenatore sempre con U.T.E.P., non riuscendo mai più a replicare la vittoria del 1966 ma diventando una figura di riferimento nel basket collegiale, dando lustro e visibilità alla sua università (che gli ha dedicato l’attuale campo di gioco) e facendo da mentore ad innumerevoli generazioni di giocatori, alcuni dei quali divennero poi eccellenti giocatori NBA (Nate “tiny” Archibald, Tim Hardaway e Antonio Davis su tutti).
Nel 2006 la Disney dedicò alla cavalcata vittoriosa dei miners il film “Glory Road – vincere cambia tutto”. Se vi va di guardarlo si può trovare facilmente anche in rete. È fatto molto bene. Scusate solo se vi ho raccontato il finale.
Marco Minozzi