Dietro la vittoria di Matteo Renzi
L’ufficializzazione dei risultati delle primarie del Partito Democratico che hanno portato Matteo Renzi alla vittoria e al ruolo di segretario (il quinto in sei anni di vita del partito dopo Veltroni, Franceschini, Bersani ed Epifani), consentono di capire come è maturata la vittoria del sindaco di Firenze; tuttavia, prima di affrontare l’analisi dei dati e soprattutto dei raffronti con le consultazioni precedenti, è già possibile interrogarsi sul perché Renzi sia riuscito a imporsi nella competizione, per di più a prevalendo con un risultato di una simile portata.
Sono molti i commentatori politici che hanno posto l’accento sul programma del sindaco di Firenze, sulla svolta blairiana, su una nuova idea di sinistra; eppure, più che cause, queste paiono essere conseguenze. Il cittadino medio che si è messo in fila alle primarie aveva in mente davvero la riforma dell’Art. 138 della Costituzione o il superamento del bicameralismo perfetto? Aveva in mente la flexsecurity o il ruolo dell’Italia nella crisi siriana? È il modo in cui il PD e con lui la politica italiana si porranno su questi temi a dipendere dalla vittoria di Renzi, piuttosto che il contrario.
Molte opinioni raccolte ai seggi, pur se non classificabili in un vero e proprio sondaggio, lasciano indicare come le consultazioni della base PD si siano trasformate in un referendum sul suo candidato favorito più che su uno scontro politico in senso stretto, referendum che Renzi ha vinto principalmente per due motivi.
In primo luogo Renzi è visto generalmente come il solo leader spendibile nel campo di centrosinistra in una competizione elettorale, e questo fattore è stato spesso determinante nell’assegnazione del voto verso di lui. Contrariamente a quanto avviene spesso nelle primarie americane, che tendono a premiare l’ala più radicale degli schieramenti, la logica che ha guidato molti votanti alle primarie PD è stata la semplice constatazione che la figura e la candidatura di Renzi non avrebbero retto una seconda sconfitta, e che quindi una vittoria di Cuperlo o Civati avrebbero definitivamente chiuso le porte della politica nazionale al sindaco di Firenze, facendo quindi venir meno la sola figura spendibile in termini elettorali sul fronte progressista.
Renzi si è costruito l’immagine di leader vincente a livello nazionale, immagine non offuscata ma in qualche modo rinvigorita – pur paradossalmente – dalla sconfitta alle primarie 2012, motivata dallo sbarramento da parte di una classe dirigente di sinistra che ne temeva l’avanzata. Il popolo di centrosinistra, proveniente da una storia politica costellata più di sconfitte che di vittorie, e reduce soprattutto da una cocente delusione elettorale nel mese di febbraio, ha fortemente e fermamente puntato sul candidato che offre le maggiori credenziali di vittoria elettorale.
Il fatto stesso che le primarie riguardassero l’elezione del segretario del PD piuttosto che del candidato alla Presidenza del Consiglio è passata in secondo piano rispetto alla necessità di non bruciare Matteo Renzi: sebbene fossero in molti a ritenere insoddisfacente o lacunosa la proposta del sindaco di Firenze sulla struttura, l’organizzazione ed il ruolo del partito sul territorio, questa considerazione non è stata determinante al momento dell’assegnazione del voto.
Il secondo tema rilevante è ovviamente quello della “rottamazione” per cui il sindaco di Firenze è negli anni diventato famoso, un tema più vivo che mai alla vista di una dirigenza politica ancora fermamente al potere malgrado le ultime, dolorose sconfitte, i patti di governo con Berlusconi, l’abbandono dei temi di sinistra su questioni focali come l’IMU, i rospi ingoiati per salvare Alfano e la Cancellieri, e questo solo per limitarsi alle esperienze più recenti.
Il sindaco di Firenze incarna l’idea di un rinnovamento totale, un modo per spazzare via una classe dirigente considerata fallita, autoreferenziale, e per di ormai appannata da commistioni con i gangli del potere a volte sfociati in scandali o procedimenti giudiziari. L’aperto sostegno di figure come Bersani e soprattutto D’Alema verso Gianni Cuperlo è stato in questo senso determinante nel traghettare molti voti verso Matteo Renzi e la sua battaglia.
Dal punto di vista prettamente politico gli slogan della sua campagna elettorale di maggior successo sono stati, senza alcun dubbio, la modifica della legge elettorale e l’abbattimento delle spese della politica, temi al tempo stesso molto semplici e la cui correlazione con la crisi economica e sociale è evidente e accertata per l’elettore medio.
Inoltre Renzi sembra in grado di imprimere al PD una svolta radicale nell’atteggiamento verso il Governo e le altre forze politiche, con un abbandono delle continue rinunce e sottomissioni, e provando veramente a dettare l’agenda politica del Paese, con uno slancio che il PD aveva smarrito dai tempi della campagna elettorale del 2007 – in cui però la preannunciata sconfitta rendeva indolore e poco oneroso usare certi toni. Grazie a questa strategia Renzi sta coltivando quello che forse è il sentimento più prezioso: l’orgoglio del popolo di sinistra per un partito ancorato alle sue decisioni, in grado di incalzare alleati e avversari e di non arretrare rispetto ai propri pilastri ideologici.
La vittoria di Renzi si è basata sull’immagine, al momento l’elemento focale da coltivare per la sua leadership e per l’idea di partito che ha in mente; questo rende il PD un partito più personale di quanto lo sia mai stato, ma di un personalismo sancito dal suffragio popolare e da esso quindi adeguatamente controbilanciato. Resta tuttavia la volubilità delle vittorie costruite solo sull’immagine: se alle parole non seguiranno i fatti la popolarità del sindaco si trasformerà ben presto in delusione. Questo Renzi lo sa, e sa che non può dormire sonni tranquilli. E questa è forse la migliore garanzia per il Paese.