Venerdì scorso, il Consiglio dei Ministri ha varato un pacchetto mi misure goffamente intitolato “Destinazione Italia”, tra le quali ve ne è una che introduce l’obbligo per chiunque intenda utilizzare in qualsiasi modo – “ivi compresa l’indicizzazione o aggregazione di qualsiasi genere” – “prodotti dell’attività giornalistica, compresi la forma e il contesto editoriali”, di ottenere la preventiva autorizzazione da parte del titolare dei diritti e, naturalmente, di versare il prezzo con questi determinato o, on assenza di accordo, stabilito dall’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni.
La norma è, naturalmente, scritta, sotto dettatura, dagli editori di giornali nel disperato tentativo di far cassa senza, però, sforzarsi davvero di cambiare le dinamiche di business e, soprattutto, di investire nel miglioramento della qualità dell’informazione che producono e che, negli anni, si è appiattita – salvo rare eccezioni – su standard scialbi, poveri e straordinariamente uniformi.
Si tratta di una delle leggi in materia di Web pensate e scritte peggio nella storia del nostro Paese che pure, quanto a simili idiozie normative – a dispetto della scarsa diffusione di Internet in Italia – è lunga e ricca di precedenti importanti.
Nessuno in possesso di una laurea in giurisprudenza – neppure se presa per corrispondenza – innanzitutto avrebbe mai ipotizzato di inserire una previsione attraverso la quale si crea un nuovo diritto d’autore e si stabilisce che per utilizzarlo occorra un’autorizzazione del titolare tra le disposizioni della legge sul diritto d’autore riservate alle c.d. libere utilizzazioni ovvero agli usi degli altrui contenuti consentiti anche in assenza di autorizzazione.
Non è una questione da accademici della crusca o cultori della proprietà intellettuale ma un indice rivelatore dell’aberrazione giuridica prodotta in nome della miope avidità di un manipolo di editori di giornali di carta che pensano di frenare l’emorragia di lettori a colpi di leggi anziché investendo in creatività, qualità e novità.
L’articolo – il 65 – della Legge sul diritto d’autore nel quale la nuova disposizione troverà posto era, prima di essere stravolto dalla pachidermica mano di un legislatore ignorante, una straordinaria norma di equilibrio che – a tutela della libertà di informazione, sacrosanta quanto il diritto d’autore – riconosceva la legittimità del riuso dei contenuti di carattere informativo, purché finalizzato, appunto, a produrre nuova informazione.
Senza quella vecchia bellissima norma che, ormai, non c’è più, un editore avrebbe potuto vietare ad altri di fare informazione citando un pezzo del proprio articolo in assenza, appunto, del suo permesso.
Se la legge sul diritto d’autore fosse considerata un’opera d’arte, i mandanti e gli esecutori dello scempio consumatosi l’altro giorno nel Consiglio dei ministri, andrebbero condannati, per direttissima, per averla irreparabilmente mutilata.
Si è dunque presa una disposizione volta a scongiurare il rischio che la privativa d’autore limitasse la circolazione dei contenuti informativi e la si è trasformata in una regola avente per obiettivo esattamente tale rischio: legittimare gli editori a limitare la circolazione dei propri contenuti in assenza di loro autorizzazione.
Non serve essere esperti di diritto d’autore per comprendere la gravità di quanto accaduto.
Ma non basta.
La norma, infatti, è, tra l’altro, palesemente incostituzionale giacché – sul piano del diritto d’autore – non esiste e non può esistere, naturalmente, alcuna differenza tra la qualità e quantità dei diritti riconosciuti su i “prodotti dell’attività giornalistica” e la qualità e quantità dei diritti riconosciuti su qualsiasi altro contenuto informativo in senso lato.
E’, evidente, infatti che tra un articolo pubblicato su una testata griffata a firma del più autorevole editorialista di turno ed un post, sullo stesso argomento, di un qualsiasi cittadino che abbia scelto di dire la sua online in un blog di informazione ospitato sulle colonne di un giornale o pubblicato in assoluta autonomia.
Entrambi i contenuti, se originali e creativi, meritano di essere tutelati allo stesso modo in termini di diritto d’autore.
Ed eccolo, quindi, il “baco” che è destinato a ritorcersi contro gli ispiratori dell’intervento normativo appena varato dal Governo.
I milioni di cittadini che, ogni giorno, producono centinaia di migliaia di contenuti riutilizzati – se davvero come sostenuto da Lorsignori indicizzare, aggregare o linkare deve considerarsi una forma d’uso di altrui diritti – nelle piattaforme editoriali degli editori, da domani, potranno, a pieno titolo, rivendicare lauti compensi e, in assenza, di accordo, chiedere all’AGCOM di determinare il giusto prezzo.
Siamo davvero sicuri che una manciata di bytes di informazione prodotta direttamente nelle redazioni dei giornali online valga di più dei terabytes di informazione prodotta dagli utenti e siamo sicuri che un’impresa editoriale moderna possa reggersi in piedi ed imboccare la strada del futuro senza riutilizzare i contenuti prodotti da “noantri” [n.d.r. per i non romani: noi altri]?
Non ci resta che organizzarci per la gestione collettiva dei diritti d’autore di “noantri”: basterà monitorare l’utilizzo dei nostri contenuti da parte degli editori e chiedere all’AGCOM – che ne ha ormai pieni poteri – di ordinare a qualsiasi editore l’immediata cessazione di ogni pubblicazione che implichi, in senso molto lato, il riuso di un nostro contenuto.
La folle e miope avidità di chi ha armato la penna del Governo non può che essere ripagata con la stessa moneta: Lorsignori chiedono lauti compensi per l’esercizio di uno pseudo diritto che non esiste in nessun altro Paese al mondo e “noantri” risponderemo chiedendo il riconoscimento di analoghi diritti.