La rabbia e il cuore: John Starks.
C’è poco da fare. Quelli bravi, buoni, belli, con tanto talento e poche sfortune non piacciono quasi a nessuno. Molto ma molto meglio qualche storia maledetta, qualche racconto di occasioni sprecate, errori, guai. E magari anche una seconda possibilità. In due parole: John Starks.
“Il talento alle ortiche”. Questo potrebbe essere il titolo appiccicato sulle spalle di quel ragazzo alto che vedete tra i commessi del Safeway supermarket se passate dalle parti di Tulsa. Siamo nel 1985, e John è stato appena cacciato dal secondo college in due anni consecutivi. Ha vent’anni, e voglia di giocare a basket. Di spaccare il mondo e di dimostrare chi è e quanto vale. Solo che finora lo ha dimostrato nel peggiore dei modi. Un anno prima, al Roger State College, con la pallacanestro non va oltre la “taxi squad”. In sostanza la squadra dei rincalzi nel caso uno dei dodici titolari si faccia male, e non tocca il campo. In compenso fuori dal campo va MOLTO oltre. La direzione lo espelle per aver rubato uno stereo ad un compagno che gli aveva fatto un torto. L’anno dopo ci riprova con Northern Oklahoma College, ma stavolta lo pizzicano a fumare erba e ancora una volta tutto quel che gli resta è un biglietto sola andata per tornare a casa. Chissà quante storie finiscono qui. Una chance sprecata e una vita passata tra le fila di scaffali in un negozio di periferia. Per carità, nulla di male, ma se l’alternativa può essere uno dei più grandi palcoscenici sportivi del mondo, beh permetteteci di schierarci apertamente nella nostra preferenza.
John, uno che non molla, ci prova ancora. Si iscrive ad un junior college (Tulsa junior college, per l’appunto), uno di quei posti dove puoi mettere a posto i voti, e non solo quelli, per provare poi a ripresentarti ai college maggiori e sperare. È quel che accade. Finisce il tormentato quadriennio universitario con Oklahoma State a 16 punti di media, ma non è abbastanza. Le storie su di lui e sul suo passato sono note. Nessuno lo sceglie al draft, il che significa nessun contratto garantito. Trova spazio ai Golden State Warriors ma dopo 36 partite i rapporti tesi col coach Don Nelson lo portano di nuovo a rovinare tutto. Troppo difficile tenere a bada il carattere, la durezza e pure la lingua. Per un anno e mezzo la NBA la guarda in tv. Per Starks solo leghe minori.
Nel 1990 una nuova occasione. Lo firmano i Knicks in pre stagione, anche se difficilmente lo terranno poi per iniziare il campionato. Il loro uomo simbolo è il centro Patrick Ewing, e quale idea più geniale per un ultimo arrivato se non quella di provare durante un allenamento a schiacciargli in testa? Pat non va per il sottile, il marchio di fabbrica del resto è quello. Risultato: Starks a pelle di leone con un ginocchio quasi rovinato. Incoscienza? Certamente. Sfortuna? Forse, ma se un giocatore sotto contratto si fa male, la franchigia per regolamento non lo può rilasciare. Inoltre se un giocatore resta per più di un tot di giorni con la stessa squadra, quest’ultima è obbligata a firmarlo fino al termine della stagione. Una sorta di legge sui contratti a termine ante litteram, per intenderci. Dunque nel male, un colpo di fortuna. Starks resta con la squadra fino a fine stagione, pur giocando poco.
L’anno seguente arriva Pat Riley che ha modo di iniziare ad apprezzarlo e a metterlo in campo con continuità. All’inizio un mezzo dramma, con quel caratteraccio che la fa da padrone. Risse verbali, aggressività all’eccesso, qualche errore di troppo, un pallone calciato verso il terzo anello, cose così. La sempre tagliente stampa locale titola a otto colonne cose come “Testa Calda” e altre amenità. Non esattamente il modo in cui si vorrebbero conquistare le pagine dei giornali, ecco. Riley però riesce a disciplinarlo e metterlo in riga, convogliando rabbia e aggressività all’interno del più duro sistema difensivo della lega. John diventa in breve l’uomo delle missioni speciali, quello che se la vede con i Reggie Miller e i Michael Jordan del caso. Ogni volta senza mai tirarsi indietro di un millimetro. In breve tempo tra un canestro da tre, una schiacciata e un tuffo per recuperare un pallone, il Madison Square Garden si esalta per lui e lo elegge a proprio idolo. È un crescendo di successo. Gara delle schiacciate, convocazione per l’all star game, specialmente i duelli ai play off coi Bulls di Jordan. Nel 1993 iscrive negli annali una splendida schiacciata battendo l’uomo sulla linea di fondo, e segnando di prepotenza contro altri due avversari in aiuto. Peraltro nel poster uno dei due sembra proprio MJ.. Giocano alla pari i suoi Knicks, ma usciranno perdenti ogni volta contro gli imbattibili di Chicago.
La stagione seguente però il 23 più famoso del mondo si ritira, e per i blu arancio l’occasione è irripetibile. Starks gioca forse la sua miglior stagione di sempre, viaggiando a 19 punti e oltre 5 assist a sera, e New York torna in finale dopo una vita. Di fronte Houston, la squadra di Olajuwon e dei giovani Sam Cassell e Robert Horry. In gara tre sotto di tre punti John subisce fallo mentre tenta di segnare dalla lunga distanza a pochi secondi dalla fine. Il regolamento dell’epoca però non permette di tirare tre liberi (lo cambieranno in tutta fretta la stagione seguente), così Houston vince alla fine la partita. Sotto 2-1 i blu arancio rimontano e tornano a Houston sul 3-2. In gara 6 Starks è spettacolare. Riporta i suoi in partita segnando 27 punti (quella serie passò alla storia per le grandi difese e i punteggi bassissimi, con nessuna squadra a superare mai i 100 punti) ma sul possesso decisivo, Olajuwon sfiora il suo tiro della vittoria che finisce corto. Starks non riuscì a recuperare dal contraccolpo psicologico. Si rifiutò di parlare con la stampa alla vigilia di gara 7 e in campo giocò la più terribile delle partite. 2 su 18 al tiro, 0 su 11 da tre e tutti e 10 i tiri tentati nell’ultimo quarto fuori bersaglio. Senza il contributo del suo guerriero New York cedette nel finale. Per il ragazzo di Tulsa il punto più alto e allo stesso tempo più basso della sua carriera.
Alla fine della stagione seguente Riley lasciò in malo modo la panchina dei Newyorkesi (via fax, non proprio un trattato di eleganza) in cui tornò a sedersi Don Nelson. Sì quel Don Nelson che aveva sostanzialmente cacciato il numero 3 ad inizio carriera a Golden State. Retrocesso in panchina per il decisamente meno talentuoso Hubert Davis, Starks dimostrò un grande miglioramento dal punto di vista caratteriale (complice anche la cacciata di Nelson a metà stagione) e anche l’anno successivo, quando a sostituirlo in quintetto fu Allan Houston, non mancò mai di dare il suo contributo alla squadra alzandosi dalla panchina, e vincendo così il premio di sesto uomo dell’anno. Fu la sua ultima stagione sotto le luci di New York. Scambiato dalla dirigenza per arrivare a Latrell Sprewell, giocò ancora un paio di discrete stagioni ai Warriors e altrettante a Utah. Alla scadenza del contratto però, quando nessuna squadra si fece avanti per offrirgli un posto, decise di ritirarsi. Il ragazzo difficile, immaturo, dal carattere scontroso, cacciato da due scuole e sull’orlo dell’autodistruzione era riuscito a dimostrare quanto valesse veramente, maturando grazie soprattutto all’esperienza degli otto anni passati nella Grande Mela. Quasi undicimila punti segnati, il ricordo indelebile lasciato nel cuore di una delle tifoserie più esigenti d’America, e il rimpianto di un anello solo sfiorato in quella tremenda notte texana.
Le storie maledette, dopotutto, non hanno quasi mai un finale perfetto
Marco Minozzi