L’altalena dei negoziati
Status of Palestine in the United Nations: è il titolo della Risoluzione 67/19 con la quale, il 29 Novembre 2012, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite attribuiva alla Palestina la qualifica di Stato osservatore non membro. Che piaccia o meno, questa è stata una delle pagine più importanti della storia della Palestina, un “certificato di nascita” per richiamare la metafora utilizzata dal Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, M. Abbas (Abu Mazen), un attimo prima del voto al Palazzo di Vetro.
Nei mesi successivi, tra lo Stato ebraico e quello palestinese si è condensata una tensione che resta difficilmente gestibile, senza considerare che il malcontento nei confronti della politica israeliana ha investito persino l’Unione Europea. Tutto sommato si tratta di un risentimento non proprio nuovo, il cui leitmotiv è l’esistenza di colonie israeliane in territorio palestinese. Ad oggi sono trascorsi quattro mesi dalla ripresa dei negoziati di pace, verosimilmente inefficaci già quando – verso la metà di Agosto scorso – il Ministro israeliano per la casa Uri Ariel approvava la costruzione di oltre mille nuove unità abitative tra la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Tra le novità si intravvedono sprazzi di eventi passati: un deserto di comprensione in cui la Palestina cerca di ritagliarsi un dignitoso ruolo politico e, di riflesso, Israele è inghiottito dalla paura di un pericolo più grave della minaccia iraniana (The Guardian). Con scetticismo non troppo velato si è espresso anche Yuval Diskin, già direttore di Shabak, una delle maggiori agenzie di intelligence israeliane, il quale ha criticato fortemente la linea politica perseguita dal proprio Paese. In particolare, l’accanita espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank (ossia la Cisgiordania) rivela un misto di necessità e prevaricazione, con cui si è preteso di giustificare l’occupazione, anteponendo la tutela del territorio a quella delle persone.
In un clima dominato da aspettative nate sconfitte, sul fallimento del dialogo scivola furtivamente anche l’indignazione degli arabi di Israele, che di Israele hanno la cittadinanza, ma della Palestina serbano l’identità religiosa e linguistica (The Times of Israel).
Due Stati per due popoli?
Nonostante il pessimismo che traspare dalle parole di Y. Diskin, forse non è opportuno respingere completamente l’ipotesi di due Stati indipendenti, uno arabo-palestinese ed uno israeliano, specialmente in considerazione del valore politico della risoluzione ONU che ha offerto alla Palestina la dignità di Stato osservatore.
Ad ogni modo, le critiche mosse da Netanyahu alle incoerenze politiche di Abu Mazen si consumano nel timore di un’allarmante decadenza dello Stato ebraico. D’altro canto, le linee guida recentemente approvate dall’Unione Europea impongono l’imminente blocco dei finanziamenti per le imprese israeliane operative nei territori palestinesi occupati. Al diktat di Bruxelles si associa con sorpresa la Romania, che – nel recepire le direttive comunitarie – è disposta ad incrinare i rapporti economici e commerciali che allacciano Tel Aviv al Governo di Bucarest, un’isola filo-israeliana nell’Europa orientale dall’indubbio retaggio comunista.
L’ostilità nei confronti di Tel Aviv orbita attorno all’idea che l’occupazione sia una pratica non tollerata dal diritto internazionale. Del resto, sull’inversione di rotta intrapresa dai singoli governi europei è stata determinante la pressione esercitata dalla Palestina sulle imprese straniere, affinché queste svincolassero i propri investimenti dalla West Bank. Il gelo è partito da Bruxelles per propagarsi repentinamente verso le periferie europee, rendendole sensibili alle voci del mondo arabo che denunciavano un regime di segregazione assai simile allo scenario sudafricano.
Ed anche a voler ritenere l’analogia non proprio aderente alla realtà dei fatti, buona parte dell’opinione pubblica mondiale legge nella discriminazione del popolo palestinese la ragion d’essere del Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele (BDS), il cui attivismo è pronto a spingersi fino a che l’occupazione di Gerusalemme Est e della West Bank non potrà ritenersi conclusa (Haaretz).
L’ammonimento è il frutto di un’analisi politica pubblicata in uno dei principali quotidiani nazionali di tendenza liberale, che sembra confermare le gravi proiezioni del Ministro delle Finanze israeliano Y. Lapid, nell’ipotesi in cui i colloqui di pace giungessero realmente ad un punto di non ritorno (Financial Time).
Occupazione: un po’ per ingerenza, un po’ per legittimità
Che gli insediamenti israeliani costruiti successivamente alla Guerra dei Sei Giorni (1967) costituiscano il principale fattore di debolezza dei negoziati di pace resta l’idea prevalente sul piano internazionale. Ma a tingere di tanta convinzione una realtà così ampia ed eterogenea contribuisce anche una pennellata di superficialità, specie quando si ritiene che ad abitare Gerusalemme Est, le Alture del Golan e la Cisgiordania siano esclusivamente Ebrei ultraortodossi, la cui ideologia integralista provoca di fatto disagi anche alle comunità dei connazionali che vivono al loro fianco negli insediamenti cd. illegali.
È tuttavia innegabile che i palestinesi abitino un territorio di fatto sbriciolato dagli insediamenti israeliani sui quali oggi più di ieri punta il dito l’Europa e, negli ultimi tempi, anche l’America di Obama. Un territorio rubato, dunque? Ma gli Ebrei, fin dall’antichità, non hanno sempre vissuto in Giudea e in Samaria? A stabilire dove finisce la legittima difesa e dove comincia l’occupazione si sono sciupati sessant’anni di storia del Medio Oriente.
Così, se dal tavolo delle trattative ci si è alzati senza nemmeno cercare un confronto, ad onor del vero, l’abbandono non sempre è stato segnato dalla prepotenza di Israele; talvolta ha inciso forse ancor di più l’inflessibilità dei palestinesi, la pretesa di rendere Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina e soprattutto il rifiuto di riconoscere ufficialmente lo Stato ebraico.
Negli ultimi giorni, i Ministri degli Esteri dell’Unione Europea hanno incoraggiato la ripresa dei negoziati e la formazione di un accordo quadro sui confini, condizioni che potrebbero garantire l’ingresso facilitato di Israele e Palestina nel mercato europeo. Insomma, si spalancano altre porte affinché il futuro assuma un sapore meno amaro del passato, dominato da decenni di conflitto ed interrogativi irrisolti, promesse infinite, ma finora puntualmente spezzate.