Se la manovra economica prodotta dal Governo Monti si può considerare, almeno per svariati aspetti comunque piuttosto rilevanti, una prosecuzione della linea politica del precedente governo di centrodestra, un forte elemento di discontinuità evidenziato dal nuovo Presidente del Consiglio ma forse passato troppo inosservato riguarda la posizione del Paese vero l’introduzione della tassazione sulle transazioni finanziarie che prevedono cambi di valuta, in gergo la tobin tax.
[ad]La tassa viene così chiamata in onore del Premio Nobel per l’economia James Tobin che la propose nelle sue Janeway Lectures a Princeton nel 1972, poco dopo la dissoluzione del patto di Bretton Woods per via della decisione di Nixon di abbandonare la parità aurea del dollaro americano. Venendo a mancare quindi l’aggancio delle singole valute – a meno di un piccolo intervallo di oscillazione – all’oro, il sistema collassò fino a trovare un nuovo equilibrio utilizzando il dollaro americano come valuta di riferimento, ma senza più legare ad esso tutte le altre valute in maniera fissa, e aprendo così la strada alle speculazioni valutarie.
James Tobin intese la tassa sulle transazioni intervalutarie come un tentativo di stabilizzare le oscillazioni a breve termine sulle diverse divise, e al tempo stesso offrire ai Paesi possessori di valute deboli un’entrata erariale sufficiente a costituire un’alternativa, per pilotare l’economia nazionale, alla svalutazione della moneta.
Nel corso degli anni tutti i tentativi di imporre la tobin tax nel mondo sono terminati con un fallimento.
La prima nazione che provò ad applicare la tobin tax fu la Svezia socialdemocratica di Olof Palme, che introdusse un’aliquota dello 0,5% sull’acquisto e sulla vendita di titoli azionari e stock options (di modo che un completo giro di compravendita avesse una tassazione dell’1%), tassa che fu poi raddoppiata nel 1986. Nel 1989 venne affiancata un’ulteriore imposta dello 0,002% sui titoli di stato a tre mesi, e dello 0,003% per durate maggiori. L’esperienza fu catastrofica: l’intervento ebbe effetti estremamenti depressivi per i mercati finanziari svedesi, con gli scambi che entrarono in stagnazione; l’introduzione dell’aliquota sui titoli di stato ne fece crollare il mercato di oltre l’80%.
Quando la tassa venne rimossa, tra il 1991 ed il 1992, gli scambi sul mercato svedese tornarono in fretta ai livelli della prima metà degli anni ’80 e iniziarono un periodo di crescita che perdurò per tutto il decennio.
Successivamente la tobin tax arrivò ad un soffio dall’essere approvata in Francia tra il 2001 ed il 2002: l’assemblea approvò la proposta, che però venne poi bocciata dal Senato. Nel 2004 il Belgio approvò una norma che avrebbe automaticamente fatto entrare in vigore la tassa se questa fosse stata approvata a livello globale.
Proprio a tale proposito venne persino tentato nel 2000 di destinare i proventi di una tobin tax su scala mondiale alle Nazioni Unite, tramite una risoluzione che impegni i Paesi membri ad avviare le procedure legislative entro il 2015. Ad oggi la proposta è ancora in alto mare, principalmente per l’opposizione degli Stati Uniti.
Ad oggi l’unica forma di tobin tax presente nel mondo riguarda l’esperienza sovranazionale della Banca del Sud, varata nel 2007 per volontà del venezuelano Chavez e dell’argentino Kirchner.
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[ad]Il significato dell’esperienza svedese, come d’altra parte risulta ovvio anche a livello logico, è che unatobin tax di dimensione locale è una misura puramente depressiva ed emarginante, in quanto non fa che dirottare investitori e speculatori su altre piazze finanziarie più favorevoli.
Questo ha tuttavia generato un progressivo gioco allo scaricabarile, in cui i diversi Paesi ed i diversi governi si mostravano tutti favorevoli ad una tobin tax globale senza che tuttavia nessuno ardisse fare il primo passo nelle sedi nazionali e internazionali. Il Governo Italiano di matrice berlusconiana si era sempre scagliato contro la tobin tax, vuoi in via soft come il Ministro dell’Economia Tremonti, vuoi in termini più coloriti come il Presidente del Consiglio Berlusconi, che non esitò a mettersi di traverso alla UE quando questa la propose e definire ridicola la proposta, come riportarono tra gli altri La Repubblica ed Il Corriere della Sera.
Nel mondo i principali oppositori alla tobin tax sono USA, Cina e Giappone; nell’Unione Europea, di per sé più possibilista e al cui interno diverse timide proposte sono state tentate nel corso degli anni, pesa in maniera sostanziale il veto dei Paesi che ospitano le principali piazze finanziarie, Regno Unito e Paesi Bassi. In realtà sotto il governo Brown da Londra erano arrivati diversi segnali di apertura alla tassa sulle transazioni finanziarie, al punto che lo stesso Parlamento Europeo ha votato una risoluzione in cui veniva richiesta l’introduzione di una tobin tax a livello globale o quantomeno europeo. Il ragionamento alla base di una simile proposta è stata la scommessa che una sufficiente massa critica di Stati e di piazze finanziarie potesse essere sufficiente a rendere operativa la tobin tax senza condannare all’emarginazione quegli stessi Paesi in favore di altri mercati più liberi da imposte.
Il passaggio di governo dai laburisti ai conservatori del 2010 ha riportato il dibattito in fase di stallo.
Nelle ultime settimane sono tuttavia maturati due eventi che possono costituire un vero punto di svolta nel processo di applicazione di una tobin tax a livello europeo. Il passaggio di consegne da Berlusconi a Monti – allievo dello stesso Tobin a Yale – ha portato Roma ad allinearsi a quel gruppo di Stati capitanati dalla Germania che vogliono l’approvazione della tobin tax. Tuttavia Monti, alla ricerca di alleanze politiche per contrastare l’asse Parigi-Berlino in seno alla UE e che nutriva speranze di un aggancio con Londra, forse non si sarebbe mai esposto esplicitamente in tal senso se il Regno Unito, al vertice europeo dell’8 e 9 dicembre, non avessi scelto di non aderire all’accordo sulla fiscalità comune europea, isolandosi così dal resto della UE.
È chiaro, l’isolamento della Gran Bretagna è più apparente che reale: Londra conserva tutti i suoi poteri in seno alle istituzioni europee, e può essere in grado di bloccare iniziative a livello europeo tramite il diritto di veto o raggranellando una minoranza di stati sufficiente a impedire il formarsi di una maggioranza qualificata. Ciò che tuttavia è emerso dal summit di dicembre è la volontà politica di creare un’Europa multilivello e a geometria variabile, in cui sottoinsiemi degli Stati membri possono accordarsi tra di loro e prendere iniziative anche in ambito legislativo senza dover sottostare ai veti dei Paesi che hanno deciso di restare fuori da un determinato accordo. Questa visione è naturalmente ancora in stato embrionale e si scontra con una realtà così interconnessa da necessitare di serie valutazioni prima di poter essere tradotta in realtà – ad esempio prendere decisioni di stampo economico senza la Gran Bretagna che è il secondo azionista della BCE appare quasi un controsenso – tuttavia lascia intendere come l’attuazione della tobin tax europa non sia mai stato un obiettivo così alla portata della UE.
La massa critica di Stati coinvolti, secondo le intenzioni dei promotori, sarebbe sufficiente ad evitare la marginalizzazione della UE nei confronti, ad esempio, di altre piazze non tassate come New York o Londra nel caso il Regno Unito restasse al di fuori da un simile accordo.
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[ad]Considerata quindi la sostanziale equità della tassa, che va a toccare tipologie di transazioni finanziarie legate a doppio filo con la speculazione, ma tenuto conto della sua dimensione necessariamente sovranazionale, quali potranno essere gli eventuali effetti sulla popolazione, ad esempio, dell’Italia?
L’utilizzo effettivo delle risorse dipendebbe naturalmente dall’ente destinatario dell’imposta: nel caso di una redistribuzione agli Stati membri si tratterebbe di un’entrata erariale al pari delle altre, in caso di trattenuta della UE gli importi potrebbero essere utilizzati per finanziare gli strumenti di controllo e salvaguardia come i vari fondi di garanzia sui debiti sovrani, essere utilizzati per i fondi allo sviluppo ed una miriade di altre iniziative comunitarie.
Vi sono tuttavia alcuni vantaggi indotti, dovuti alla semplice esistenza della tobin tax e di cui come tali beneficerebbe l’intera area euro in maniera indipendente dal gettito raccolto: scoraggiando la speculazione a breve termine, l’euro si ritroverebbe ad essere più stabile e protetto dagli attacchi del mondo della finanza, rendendo la tassa sulle transazioni finanziarie addirittura uno strumento di salvaguardia della stabilità dei Paesi.
Secondariamente, colpendo le transazioni intervalutarie, la tobin tax spingerebbe le aree monetarie a fondersi e ingrandirsi, diminuendo il numero delle divise in circolazione e arrivando a creare un sistema finanziario maggiormente semplificato e stabile e quindi più difficilmente attaccabile dalla speculazione.
Una mera speranza? Sarà principamente il prossimo vertice europeo, che si terrà nel mese di marzo, a svelarlo.