Bilanci di fine anno: la settimana scandinava
Finisce il 2013 e in Scandinavia è tempo di bilanci. Un bilancio che è negativo in Finlandia, dove l’economia rimane un problema. Tutt’altra musica in Norvegia, dove il governo di centrodestra che a settembre ha vinto le elezioni rivendica il merito di aver portato alle urne tantissimi giovani. Peggio va all’esecutivo in Danimarca, che nelle ultime settimane ha dovuto affrontare un problema dopo l’altro – e i risultati si vedono nei sondaggi. L’Islanda invece continua a bisticciare con Bruxelles. Sul tavolo c’è sempre l’ipotesi di adesione all’Unione europea.
Venerdì scorso il parlamento finlandese ha approvato il bilancio statale per il 2014, ultimo atto prima della pausa invernale. I deputati torneranno a riunirsi a inizio febbraio. Nel frattempo va in archivio un 2013 che per l’economia finlandese è da dimenticare: per il secondo anno consecutivo il Pil è andato indietro anziché avanti. Le prospettive per l’anno prossimo non sono molto più rosee. Il governo si aspetta una crescita di appena lo 0,8 per cento nel 2014. Per vedere qualcosa di meglio bisognerà aspettare il 2015, quando l’economia dovrebbe espandersi dell’1,8 per cento.
Preoccupa soprattutto la disoccupazione, dove le cose potrebbero essere peggiori di quanto stimato fino a oggi. Il ministero delle Finanze ha dichiarato di temere che potrebbero essere 100.000 quelli che non rientrano nel conteggio, abbassando quindi la percentuale dei senza lavoro e raccontando una storia migliore di quel che è. Quest’anno dovrebbe chiudersi con una disoccupazione all’8,2 per cento, che dovrebbero diventare l’8,4 nel 2014. A preoccupare il governo è soprattutto quella fetta di scoraggiati che il lavoro hanno smesso di cercarlo e che potrebbero avere enormi difficoltà ad essere riassorbiti quando l’economia riprenderà a girare.
Anche in Danimarca il 2013 si chiude nelle difficoltà: le ultime settimane sono state terribili per il governo della laburista Helle Thorning-Schmidt, che in acque agitate del resto ci naviga sin dall’inizio della legislatura nel 2011. Tre ministri persi per strada nell’ultimo mese non hanno certo giovato all’immagine dell’esecutivo, che infatti saluta il 2013 con l’ennesimo sondaggio negativo: socialdemocratici al 22,5 per cento, Sinistra Radicale all’8,4 per cento, Partito Popolare Socialista al 3,7.
Thorning-Schmidt a Natale ha annunciato un nuovo pacchetto di stimolo per l’economia ma per ora deve restare a guardare un’opposizione di centrodestra saldamente avanti nei sondaggi.
Tra i conservatori, il protagonista delle ultime settimane è il Partito Popolare Danese, formazione politica con radici populiste: il 18,5 del consenso virtuale la dice lunga. Se è vero che i numeri salgono e scendono – segno di una certa volatilità nelle scelte degli elettori – è altrettanto vero che siamo ormai di fronte a una realtà politica che sta acquisendo centralità nello scacchiere danese.
Il 2013 in Norvegia è invece stato l’anno delle elezioni. Lo scorso settembre il governo di centrosinistra che per otto anni ha guidato il paese è uscito sconfitto dalle urne. A Oslo oggi c’è una coalizione di centrodestra.
In una sorta bilancio di fine anno, il primo ministro Erna Solberg qualche giorno fa si è detta molto soddisfatta del lavoro del suo governo. Parole di apprezzamento le ha spese anche per la collaborazione con il Partito Liberale e con il Partito Popolare Cristiano, che appoggiano l’esecutivo dall’esterno. Solberg ha poi rivendicato un merito: quello di aver portato molti giovani alle urne. I dati dicono che lo scorso settembre il numero di ragazzi tra i 18 e i 21 anni al voto per la prima volta ha toccato quota 66,5 per cento: un livello del 10 per cento più alto rispetto alle elezioni del 2009.
Solberg attribuisce il merito alla proposta politica del suo partito. Qualche analista sottolinea invece che molto lo si deve all’attentato del 22 luglio 2011 e in effetti l’aumento dei ragazzi alle urne s’era già visto alle amministrative di due anni fa. Due spiegazioni che non si annullano a vicenda: il partito della Destra ha fatto tanta strada negli ultimi anni, conquistando pezzo per pezzo l’elettorato giovanile. Qualcosa del genere lo so era visto già due anni fa, appunto. A farne le spese è stato soprattutto il Partito della Sinistra Socialista, a lungo calamita per il voto dei ragazzi.
In questi ultimi giorni del 2013, in Islanda è tornato di moda un vecchio tema: l’adesione dell’isola all’Unione europea. I colloqui, avviati nel 2011, sono stati congelati dall’attuale governo di centrodestra. Ma per Bruxelles la partita non è chiusa. Segnali vengono lanciati a Reykjavík sotto forma di risposte al premier Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, che ha contestato la decisione presa da Bruxelles qualche settimana fa di interrompere l’erogazione dei fondi Ipa (Instrument for Pre-Accession Assistance, uno strumento di finanziamento dell’Ue per i paesi candidati a entrare nell’Unione).
Per il premier lo stop ai finanziamenti è un messaggio di fine colloqui lanciato agli islandesi. Interpretazione del tutto errata, secondo Bruxelles. Pia Ahrenkilde Hansen, portavoce della Commissione europea, ha contestato una lettura del genere, aggiungendo che Bruxelles continua a credere che l’Islanda dovrebbe entrare a far parte dell’Ue: i colloqui potranno riprendere non appena le autorità dell’isola lo riterranno opportuno. Cosa che, ha concluso Pia Ahrenkilde Hansen, è stata più volte ribadita al governo islandese.