L’elettorato di Renzi […] si caratterizza per una maggiore trasversalità politica ed ideologica e per un minore grado di coinvolgimento politico in termini motivazionali [rispetto all’elettore “medio” delle primarie]. Tuttavia, rispetto alle precedenti primarie, la trasversalità politica di Renzi è meno marcata, anche a causa di un evidente sfondamento elettorale a sinistra (del resto necessario per poter essere eletto segretario del Pd a maggioranza assoluta). […] In definitiva Renzi ha vinto perché è riuscito ad imporsi nella tradizionale constituency del Pd, quella che aveva incoronato Bersani candidato premier. La vera sfida per il sindaco di Firenze è allargare tale base elettorale, accentuando gli elementi di novità pur presenti nella sua elezione a segretario, per poter avere una chiara affermazione anche alle prossime elezioni politiche.
Questa la conclusione di uno studio sugli elettori delle primarie che l’8 dicembre hanno portato all’elezione di Matteo Renzi alla segreteria del PD effettuata dal CISE, il centro studi della LUISS specializzato sulle dinamiche elettorali diretto da Roberto D’Alimonte. Il risultato nasce da diversi fattori: alla semplice constatazione statistica che un candidato capace di catalizzare circa il 70% dei voti di un corpo elettorale non può che trovare le appartenenze del suo elettorato molto diluite e appiattite sulla media generale, mentre possono essere stati caso mai gli sconfitti ad attrarre un consenso “eccentrico”, si unisce la considerazione di uno scarso mutamento nelle appartenenze e nelle caratteristiche sociali del corpo dei partecipanti alla votazione rispetto a quello della tornata precedente, coronato dalla considerazione di un discorso politico del Renzi vincente meno di rottura e più legato ad alcuni temi-cardine della sinistra “storica” rispetto a quello del Renzi sconfitto (difesa dei redditi e della redistribuzione coniugata e quasi anteposta, più che scavalcata, dall’accoglienza dell’iniziativa individuale, maggiore cautela quantomeno sul piano espositivo nella proposta di un intervento sulla legislazione sul lavoro, invito alle organizzazioni sindacali a partecipare al cambiamento di pelle del progressismo italiano in sostituzione di una contrapposizione più netta e marcata, ecc.).
La questione ha fatto discutere, perché mette in forse, o quantomeno non dà più per acquisito, un elemento considerato capitale nella leadership di Renzi, ovvero la certezza di raccogliere per le insegne del PD un consenso trasversale adeguato a un’affermazione elettorale così schiacciante da giustificare un eventuale “annacquamento” dei cavalli di battaglia tradizionali della sinistra italiana. Le rilevazioni, sia chiaro, danno Renzi capace di dialogare fuori degli steccati in cui il Partito democratico si è rinchiuso negli ultimi anni ben più dei suoi avversari interni: tuttavia il consenso proveniente dal Movimento 5 Stelle, dall’area “montiana” e in alcuni casi anche da settori del tutto antitetici all’area della sinistra sembrano più un ritorno sui loro passi di importanti contingenti di elettori che il PD ha perso per strada nel corso del tempo dal bacino dei suoi elettori potenziali, che una vera e propria nuova acquisizione. Il sindaco di Firenze, insomma, si dimostra più adatto a ricompattare il consenso delle varie “famiglie” di elettori che dovevano comporre in origine il soggetto politico immaginato con l’inaugurazione del Partito democratico (e, visti i disastri successivi, già questo non è poco), che ad allargare in modo significativo il parco degli elettori verso aree dell’opinione pubblica prima poco o per nulla battute da tale formazione.
La questione è effettivamente reale, alla luce dei dati, ma non può essere spiegata semplicemente facendo riferimento a un cambio di registro strumentale del nuovo segretario del PD, necessario per ottenere il consenso interno di militanti ed elettori “attivi” alle primarie indossando i panni del custode dell’ortodossia progressista italiana con la stessa disinvoltura con cui prima si erano vestiti quelli del suo fustigatore. Un semplice sguardo ai risultati delle primarie del 2012, con Renzi capace di fare il pieno di voti e di adesioni nelle storiche regioni “rosse” e in diverse altre aree a forte radicamento dei soggetti politici di sinistra, lasciando invece a Bersani i territori del nord e del sud dove l’adesione al PD era più debole e quindi la partecipazione al voto era ristretta a personale strettamente coinvolto nella vita interna dell’istituzione-partito e nelle sue attività di governo e di amministrazione o da esso più o meno direttamente controllato, dovrebbe far riflettere sulla continuità che Renzi ha dimostrato nel suo tentativo di farsi portavoce di un’idea di politica e di partecipazione assai più diffusa di quanto si credesse nell’elettorato tradizionalmente interessato al Partito democratico, e solo parzialmente rappresentata dalla sua “macchina” organizzativa interna.
A conti fatti, quindi, molte delle valutazioni di partenza sul fenomeno-Renzi devono essere riviste profondamente. La proposta politica che egli ha cercato e cerca di incarnare è l’insieme di tradizioni ben presenti alle origini dell’incontro che ha condotto alla formazione del PD, e ancora assai vitali nel corpo elettorale, anche se da tempo estranee al “patto di segreteria” che ha retto negli anni precedenti il partito. Quest’ultimo era rappresentato dall’ormai usurata intesa tra una sinistra “sindacale” arroccata su una linea di conservazione di equilibri almeno relativamente positivi per le categorie tradizionalmente tutelate dai grandi istituti di rappresentanza del lavoro e di un cattolicesimo democratico che accettava di buon grado questa collocazione in cambio della messa tra parentesi di qualunque istanza di promozione dei diritti civili generalmente, attraverso l’escamotage di una libertà di coscienza riservata ai parlamentari e non ai cittadini. Il vario mondo che si è raccolto attorno a Renzi, invece, è quello generalmente (e in diverse gradazioni) riformatore e modernizzatore, dei rapporti economici così come della tavola dei comportamenti condivisi e degli stili di vita pienamente integrati nella legislazione e nella società. Un mondo che finora ha sempre trovato espressione nel PD in forme controllate e minoritarie, e che è riuscito a influire sul discorso politico dei vertici solo quando questi, nei mesi della segreteria di Walter Veltroni, erano comunque strettamente soggetti al consenso del patto di segreteria tradizionale. Ma un mondo le cui componenti non si sentono meno legittimate a far parte del partito, e anzi hanno trovato in esso la loro collocazione naturale anche quando chi peccava di eccessivo “entusiasmo” per le istanze di cambiamento rapido degli equilibri veniva guardato con sospetto e ammansito dai “vecchi saggi” dell’establishment.
Questi settori del PD, spesso percepiti come destinati a una sostanziale marginalità, ma comunque consapevoli di essere l’unico possibile motore per un aggiornamento delle istanze di fondo della sinistra italiana e per il dinamismo di tutta l’area, hanno trovato in Renzi qualcosa che prima mancava uno speaker abile, capace di rendere più accattivante, e quindi non più sottovalutabile, la presentazione del “piatto” offerto dalla sinistra liberale agli elettori. Un comunicatore di indubbio carisma e di grande energia, capace di farsi ascoltare senza alzare troppo i toni, capace di usare i media nel suo interesse senza però calcare la mano e finirne schiacciato, capace anche, ogni tanto, di una semplificazione che rasenta la superficialità, come nel caso di qualche uscita troppo facilona sulle politiche universitarie. Soprattutto capace di modulare il suo discorso in base ai possibili interlocutori, e quindi da un lato di parlare anche a chi aveva una “dieta” mediatica diversa dall’elettore-tipo del PD, dall’altro di far apparire le sue posizioni vicine a quanto l’interlocutore si aspetta, puntando a smussare i termini del confronto più che ad acuire il conflitto. Tuttavia i contenuti del suo messaggio, basato appunto sulla necessità di riformare gradualmente ma profondamente il patto sociale così da introdurre alle tutele e ai benefici del welfare scaglioni di popolazione altrimenti esclusi, e sulla revisione di molte delle legislazioni sui diritti (da quelle sulla cittadinanza e l’immigrazione alla disciplina delle forme di convivenza e di famiglia) in senso inclusivo. E una simile impronta è sufficientemente deducibile dal percorso di Renzi e di molti dei suoi collaboratori più stretti, provenienti dall’associazionismo giovanile cattolico senza mai essersi avvicinati al confessionalismo, “addestrati” alla politica al di fuori dei grandi partiti dell’età repubblicana classica per evidenti ragioni generazionali, in alcuni casi attivi per anni nelle istituzioni di rappresentanza dei diritti delle minoranze etniche, culturali e di orientamento sessuale.
In quest’ottica, è un errore piuttosto grossolano scambiare il contenitore per il contenuto, ovvero prendere Renzi per un imbonitore capace di creare un packaging accattivante per qualunque proposta politica, e quindi intento a riempirsi la bocca di tutti i luoghi comuni di più facile presa sul pubblico, qualunque sia la loro provenienza ideale e il loro contenuto, pur di non rovinare la sua immagine e di accumulare un consenso sufficiente a soddisfare la sua ambizione di scalata al potere. Eppure, troppo spesso la figura del nuovo segretario del Partito democratico è stata interpretata così durante la sua parabola politica. Questa immagine, in particolare, ha trovato grande seguito nel pubblico dei suoi oppositori durante la corsa alle primarie del 2012, quando è letteralmente dilagata tra gli elettori e alcuni esponenti anche di un certo rilievo del “blocco” raccolto attorno a Bersani. Quest’ultimo, peraltro, non sembra essersi limitato a lasciarla colpevolmente circolare, col risultato di far maturare tra i suoi sostenitori una incontrollata ostilità verso il “nemico interno” privo di reali riferimenti alla tradizione del PD e schiavo dei “poteri forti”, delle “banche” e della “finanza speculativa”, e una superficiale assoluzione del nostro sistema di redistribuzione del reddito e dei suoi limiti per timore di interventi ulteriormente peggiorativi, destinate ad arroccare ben al di là della sua volontà su posizioni massimaliste un leader impostosi nel panorama nazionale con un programma e una proposta politica profondamente diversi e improntati a una più decisa campagna di liberalizzazione dell’economia.
Oltre a ciò, infatti, Bersani ha dimostrato proprio di ritenere tale interpretazione fallace del “renzismo” del tutto valida. Per questo ha guardato abbastanza apertamente alla candidatura di Laura Puppato come a una buona “opzione civetta” per sottrarre i voti laddove era presumibile che il Renzi-imbonitore politico potesse fare il pieno, ovvero nelle regioni del Nord dove meno forte era la presa della tradizione delle forze sociali e politiche progressiste sul corpo elettorale. Per questo anche dopo una affermazione rilevante del sindaco di Firenze in termini di voti Bersani ha teso per quanto possibile a isolarlo, a riconoscerne solo in minima parte i meriti nel netto miglioramento del livello del confronto rispetto alle precedenti edizioni di primarie, a non condividere con lui le responsabilità della campagna elettorale e a non modificare un blocco di potere che pur nella sua varietà, ormai era accertato, riusciva a rappresentare poco più di mezzo partito. Questo atteggiamento, oltre a rivelarsi strategicamente fallimentare, era sotteso alla più completa ignoranza della natura e dell’“anima” del partito che Bersani pure aveva contribuito a fondare e aveva guidato per oltre tre anni, e all’acritica assunzione di una maggiore tendenza dell’elettorato lontano dal PD e dalla sinistra a cadere nel tranello dei demagoghi privi di contenuto, verosimilmente a causa di una minore preparazione culturale o addirittura di una diversa qualità umana.
Stando ai risultati dell’8 dicembre, queste suggestioni sembrano ormai emarginate tra i sostenitori del PD. Tuttavia, esse si sono diffuse anche in altre aree elettorali. Una buona parte del consenso che Renzi è riuscito a raccogliere fuori dal mondo del centro-sinistra, infatti, sembra essere arrivato a lui in un momento di generale crisi dei propri referenti al centro e a destra proprio nella speranza di trovare in lui un sostituto abbastanza flessibile a chi avevano abbandonato, che non richiedesse vigorosi riposizionamenti ideologici perché in realtà privo di una piattaforma ideale propria, e che si limitasse a garantire due elementi essenziali per quello specifico comparto di elettorato: da un lato una capacità di creare consenso tale da consentire ai suoi sostenitori di essere dalla parte vincente; dall’altro la garanzia di contrapporsi efficacemente ai comunisti, ovvero all’establishment tradizionale del Partito democratico, identificato da buona parte della nebulosa conservatrice italiana come il principale avversario.
Il comportamento di questa parte del consenso renziano ha sempre rappresentato un’incognita. Disponibile a votarlo quando il suo nome si opponeva a tutto ciò che di peggio il PD rappresentava per loro, si sarebbe poi davvero “sporcata le mani” votando proprio per quel simbolo? Due elementi lasciano supporre che difficilmente la massa di tali elettori si sarebbe lasciata addomesticare facilmente. In primo luogo, nel corso degli anni dai settori di consenso renziano più lontani dal PD è venuta ripetutamente la spinta affinché il leader lasciasse definitivamente il partito per istituire una propria formazione personale. Si trattava di un suggerimento del tutto irrazionale sul piano della funzionalità nel sistema, come si vede chiaramente dalla vita durissima che hanno avuto i soggetti a collocazione centrista nel mantenere non solo il bacino di consenso sperato, ma anche una qualche funzione rappresentativa tra gli elettori. Certo, il disastro che Monti è stato in grado di confezionare in due mesi è dovuto anche alla sua incapacità a proporsi nell’agone politico, e senz’altro Renzi avrebbe potuto fare di meglio. Ma si sarebbe comunque posizionato su una quota di voti che lo avrebbe condotto al massimo a godere di qualche minima rendita di posizione con la partecipazione a governi di coalizione, ben lontana dalle grandi riforme da cui partiva, e quindi a snaturare del tutto i suoi progetti. Negli intenti di chi chiedeva uno sviluppo della proposta renziana fuori del PD sembrava piuttosto trasparire la volontà di poter continuare a sostenere Renzi senza doversi contaminare con l’elettorato democratico.
Un altro segnale poco incoraggiante si è avuto nelle convulse ore della scorsa elezione del presidente della Repubblica. Il sindaco di Firenze, non presente tra i “grandi elettori” ma comunque influente su una quota di parlamentari importante, era il promotore più convinto della candidatura di Romano Prodi, e non si è tirato indietro quando il nome, nonostante le resistenze bersaniane, è diventato il riferimento per il centro-sinistra. La contiguità di Renzi a Prodi è tutto sommato ovvia, se si tiene conto di alcuni elementi fondamentali: la comune appartenenza all’area del progressismo liberale maturato nel dialogo col cattolicesimo democratico che è arrivata a farsi architrave di un’alleanza di governo con la sinistra di varia provenienza socialista senza lasciarsi soffocare dall’abbraccio; la decisa volontà di considerare il maggioritario e le dinamiche dell’alternanza come una conquista per l’efficienza delle istituzioni da mantenere e consolidare; la memoria dei programmi e della vittoria del 1996, sempre presente nei discorsi di Renzi anche come esperienza personale di “battesimo del fuoco” nella politica “vera”; la consapevolezza, in Renzi, che il supporto all’ex presidente del Consiglio avrebbe garantito un buon consenso tra diversi elettori abituati a guardare al condottiero che aveva sconfitto ripetutamente Berlusconi come un autentico mito. Nonostante ciò, tra molti frequentatori dei principali strumenti di interazione sociale usati da Renzi e a dai suoi collaboratori sul web circolò subito la decisa contrarietà, forse comprensibile tra ex elettori di parte conservatrice suggestionati dalla propaganda che aveva fatto di Prodi un nemico giurato e un “comunista” acquisito. Quello che però appariva più singolare in tutto il fenomeno era l’incredulità a cui molti potenziali elettori renziani provenienti da destra guardavano all’atteggiamento del loro beniamino: semplicemente, nessuno andava al di là delle apparenze generate dalla comunicazione politica più superficiale, e si era accorto di quanto il profilo d’insieme di Renzi fosse aggregabile a quello prodiano a vari livelli. E tutto questo solo perché per Prodi si era accettata acriticamente la vulgata di origine berlusconiana che vedeva in Prodi un cripto-“comunista”, mentre per Renzi si prestava orecchio all’altrettanto diffusa idea che lo voleva privo di un profilo politico solido e di contenuti.
Queste due anticipazioni lasciano presagire che effettivamente l’operazione renziana di acquisizione indiscriminata di voti e consensi da tutti i tavoli sarà assai difficile da realizzare, almeno nei numeri che qualcuno prevede. E questo perché Renzi, contrariamente a quanto pensano i suoi detrattori più irriducibili e anche diversi suoi sostenitori, non è un semplice piazzista, disposto a vendere a chi lo ascolta qualunque cosa pur di blandirlo. Se il consenso necessario a prendere in mano le redini del governo fosse il suo fine e non un mezzo per giungere ad altre acquisizioni, il tutto si rivelerebbe molto più facile: in Italia tanti soggetti in questi anni sono riusciti ad aggregare un consenso imponente in poco tempo, salvo poi evitare accuratamente di usarlo. Ma Renzi è un politico di razza. Ha degli obiettivi programmatici, in diversi casi anche discutibili e che si possono rifiutare, e cerca di ottenere il consenso necessario a realizzarli presentandoli in modo adeguato a conseguirlo, ovvero miscelando la persuasione necessaria a chiunque non abbia velleità di atteggiarsi a giacobino, e concessioni (spesso rischiose) alla superficialità e alla faciloneria del grande pubblico. Per questo la sua sfida è assai più affascinante da seguire per un addetto ai lavori, ma il suo fallimento può essere in ogni momento dietro l’angolo.