The rebounder – Dennis Rodman 1ª parte
The rebounder – Dennis Rodman 1ª parte.
Febbraio, 1993. È una delle tante notti gelide che l’inverno porta a Detroit. Il parcheggio dove i giocatori dei Pistons lasciano solitamente le proprie auto è deserto. Ci sono solo Dennis, la sua macchina e un fucile carico accanto al sedile di guida. Dennis Keith Rodman in quel momento è uno che dalla vita ha apparentemente avuto tutto: due titoli di campione Nba, due titoli di difensore dell’anno, primo nella classifica dei rimbalzi, un contratto milionario che vale per altre tre stagioni. Eppure ha deciso di farla finita. Come tanti, sotto l’apparente benessere nasconde storie e demoni più grandi di lui che lo stanno schiacciando. Dennis preme il grilletto.. BUM! L’uomo da Southern Oklahoma State University, nato nel New Jersey ma cresciuto in Texas cessa di esistere. La testa cade contro lo schienale dell’auto, gli occhi chiusi. Chissà cosa passa per la sua mente in quegli istanti terribili. Magari ripensa a suo padre, a come sarebbe stato crescere con lui accanto invece che solo con mamma Shirley e le due sorelle maggiori, Debra e Kim. Difficile crescere con loro, consapevole che lì si è abbondato col talento, mentre da te, almeno a prima vista, no. Due sorelle, due stelle universitarie tra cui una, Debra, pure bicampione NCAA con Louisiana Tech. Roba che ad andare in giro con loro la gente si chiede chi sia lo “sfigatello” che le accompagna, 168 centimetri per cinquanta chili di pelle ossa e poco altro.. Per maggiori dettagli sulla vicenda citofonare Miller Reggie, un altro che di paragoni in famiglia con sorelle più dotate ne sa qualcosa. Si dice che in certi momenti ti scorra davanti tutta la vita, ma come dev’essere stata quella di uno che pur avendocela fatta decide ugualmente che non valga la pena continuarla? La domanda è la più scontata da farsi di fronte a queste situazioni. Alla base come detto una situazione famigliare difficile, una grande insicurezza alimentata anche da un fisico inadatto per gli sport. Se infatti alla scuola superiore ti scarta sia la squadra di basket che quella di football il contraccolpo si fa sentire di sicuro.
Segnali. Qualcosa si trova quasi sempre se si va a scavare un po’ nel passato. E non serve andare neanche molto in là nel tempo e nello spazio, perché poco dopo aver finito la scuola Rodman, assunto come inserviente all’aeroporto di Dallas, viene arrestato per furto in un negozio di orologi. Li sfila dalla vetrina aperta col manico della scopa, senza pensare che due o tre telecamere in certi posti le mettono già nel 1982. Lo pizzicano direttamente il giorno seguente, ma non gli trovano addosso nulla. Li ha presi infatti per regalarli agli amici, non per se. Un po’ fa tenerezza, a dire il vero. Per fortuna cresce oltre 20 cm in una sola estate, e grazie alla soffiata di un amico riesce ad andare al college con una borsa di studio -proprio per la pallacanestro- a Gainesville, in Texas. Cambierà destinazione dopo un anno per problemi coi voti, troppo bassi per poter mantenere la borsa di studio, ma finirà il quadriennio universitario in Oklahoma, come detto all’inizio, e lì farà amicizia durante un camp estivo con l’undicenne Bryne Rich. Segnali, parte due. Bryne è un ragazzo terribilmente chiuso, isolato, che è rimasto sconvolto per aver ucciso il suo migliore amico durante un incidente di caccia. I due fanno amicizia, e Bryne porta Dennis a casa sua, in una fattoria tipica di quella zona degli Stati Uniti. La famiglia non la prende subito benissimo eh, visto che con gli afroamericani (ma loro usano altri termini) il feeling non è subito impeccabile. Però di fronte alla rinascita emotiva del proprio figlio, amore e buon senso hanno il sopravvento su stereotipi e razzismo. Dennis “adotta” la famiglia Rich come un surrogato di quella che ha lasciato a Dallas, e per tutti i tre anni che resta al college sarà una presenza fissa nella loro casa.
Dopo il college, chiuso a 25,7 punti e 15,7 rimbalzi a partita, fa bella figura durante uno dei più famosi tornei per universitari che cercano di diventare professionisti, il Portsmouth Invitational Tournament, e su di lui mettono gli occhi i Pistons. Quel draft del 1986, ricordato dai più esperti e con la memoria buona per la terribile vicenda di Len Bias, talento di Maryland scelto alla seconda chiamata da Boston e deceduto pochi giorni dopo per abuso di cocaina, fu un draft ricchissimo di giocatori talentuosi e che lasciarono un segno nella storia del gioco. C’erano ancora soltanto 24 squadre e ognuna poteva chiamare oltre i classici due giri di oggi. Nomi buttati tra i tanti: Mark Price alla 25 (secondo giro) e Brad Daugherty (prima assoluta), Ron Harper (#8), Jeff Hornacek (#46), Nate McMillan (#30), Arvidas Sabonis (#24) e il mai abbastanza compianto Drazen Petrovic al terzo giro, numero 60. Rodman finisce come detto ai Pistons che lo chiamano al numero 27. Detroit è solida, con diverse stelle e un grande allenatore, Chuck Daly. Sono la squadra di Thomas, Dumars, Laimbeer, Mahorn, Dantley, Salley e Vinnie Johnson. Nella lega sono ribattezzati “Bad Boys”. Giocano duro, difendono al limite del lecito e spesso anche oltre, e sono in rampa di lancio verso il successo. Rodman dalla panchina porta subito il suo contributo, assorbendo la mentalità e l’etica della squadra.
Gioca come ala piccola ma difende su ali grandi e anche sulle guardie. In tre anni escono contro Boston in finale di conference dopo sette gare, l’anno dopo arrivano in finale ma perdono in sette memorabili partite contro Los Angeles mentre alla terza stagione di Dennis arriva finalmente il titolo, sempre contro i Lakers. Rodman è sempre più importante nell’economia della squadra, tanto che l’anno seguente, quando la NBA aggiunge Minnesota all’elenco delle franchigie, e tutte le altre 24 squadre devono mettere a disposizione alcuni dei propri giocatori per permettere alla nuova arrivata di allestire il proprio roster (expansion draft, se vi interessa approfondire la questione), i Pistons lasciano libero Mahorn, forti del fatto di poterlo sostituire proprio con Dennis. La risposta del numero 10 rossoblù è la vittoria del premio come miglior difensore della stagione e quella del secondo titolo NBA consecutivo, a scapito prima dei Bulls di Michael Jordan e poi di Portland in finale. Successo, soldi, una moglie e una figlia, riconoscimenti individuali e di squadra. Tutto va a gonfie vele. L’anno dopo rivince il premio come miglior difensore dell’anno ma Detroit viene eliminata da Chicago che li spazza via 4-0. Nella stagione 1991-92 vince per la prima volta la classifica dei rimbalzisti con la clamorosa cifra di 1530 palloni arpionati in stagione regolare (18,7 di media), la migliore dai 1572 di Wilt Chamberlain nel 1972 (ma Wilt era 20cm più alto e fisicamente devastante per l’epoca), prestazione ad oggi mai più superata da nessuno.
I Pistons però stanno lentamente invecchiando, ed escono contro New York al primo turno. In più a maggio coach Daly, quello in cui Rodman vedeva a tutti gli effetti un vero e proprio padre, si ritira. La moglie che divorzia da lui prendendosi la bambina mette il “carico” definitivo. Il mondo inizia a crollargli intorno. Salta il ritiro di pre stagione della squadra, Detroit perde molto più spesso di prima, e in quella notte di febbraio Rodman realizza di non farcela più. Che è il momento di dire basta. Un auto, un parcheggio deserto, un fucile carico.
TOC TOC.. Il custode del parcheggio batte contro il finestrino, insospettito dalla macchina solitaria. Rodman apre gli occhi. Ha visto tutta la vita scorrergli davanti. Ha pensato al suicidio ed in un certo modo, come ammetterà qualche anno dopo nella sua biografia, lo ha anche portato a compimento. “Ho deciso che invece di uccidermi avrei ucciso l’impostore che stava conducendo Dennis Rodman in un posto in cui non voleva andare … Così mi sono detto, ‘ho intenzione di vivere la mia vita come voglio ed essere felice di farlo.’ In quel momento ho sistemato tutta la mia vita intorno a me. Ho ucciso la persona che non volevo essere.”
E la storia, come potete immaginare, continua..
Marco Minozzi