Lo stato sociale al tramonto?
Negli ultimi giorni, in cui pare ormai imminente un colpo forse decisivo all’articolo 18 della Legge 300/1970 – meglio nota come Statuto dei Lavoratori – è apparsa in rete una lettera, ripresa da diversi blog e gruppi Facebook, dal titolo Lettera del figlio di un operaio:
Ero tornato da poche ore, l’ho visto, per la prima volta, era alto, bello, forte e odorava di olio e lamiera. Per anni l’ho visto alzarsi alle quattro del mattino, salire sulla sua bicicletta e scomparire nella nebbia di Torino, in direzione della Fabbrica. L’ho visto addormentarsi sul divano, distrutto da ore di lavoro e alienato dalla produzione di migliaia di pezzi, tutti uguali, imposti dal cottimo. L’ho visto felice passare il proprio tempo libero con i figli e la moglie. L’ho visto soffrire, quando mi ha detto che il suo stipendio non gli permetteva di farmi frequentare l’università. L’ho visto umiliato, quando gli hanno offerto un aumento di 100 lire per ogni ora di lavoro. L’ho visto distrutto, quando a 53 anni, un manager della Fabbrica gli ha detto che era troppo vecchio per le loro esigenze.
Ho visto manager e industriali chiedere di alzare sempre più l’età lavorativa, ho visto economisti incitare alla globalizzazione del denaro, ma dimenticare padre operaiola globalizzazione dei diritti, ho visto direttori di giornali affermare che gli operai non esistevano più, ho visto politici chiedere agli operai di fare sacrifici, per il bene del paese, ho visto sindacalisti dire che la modernità richiede di tornare indietro. Ma mi è mancata l’aria, quando lunedì 26 luglio 2010, su La Stampa di Torino, ho letto l’editoriale del professor Mario Deaglio.
Nell’esposizione del professore, i “diritti dei lavoratori” diventano “componenti non monetarie della retribuzione”, la “difesa del posto di lavoro” doveva essere sostituita da una volatile “garanzia della continuità delle occasioni da lavoro”, ma soprattutto il lavoratore, i cui salari erano ormai ridotti al minimo, non necessitava più del “tempo libero in cui spendere quei salari”, ma doveva solo pensare a soddisfare le maggiori richieste della controparte (teoria ripetuta dal professor Deaglio a Radio 24 tra le 17,30 e la 18,00 di martedì 27 luglio 2010).
Pensare che un uomo di cultura, pur con tutte le argomentazioni di cui è capace, arrivi a sostenere che il tempo libero di un operaio non abbia alcun valore, perché non è correlato al denaro, mi ha tolto l’aria. Sono salito sull’auto costruita dagli operai della Mirafiori di Torino. Sono corso a casa dei miei genitori, l’ho visto per l’ennesima volta. Era curvo, la labirintite, causata da milioni di colpi di pressa, lo faceva barcollare, era debole a causa della cardiopatia. Era mio padre, operaio al reparto presse, per 35 anni, in cui aveva sacrificato tutto, tranne il tempo libero con la sua famiglia, quello era gratis. Odorava di dignità.
[ad]L’editoriale di Deaglio a cui si fa riferimento è Purché non sia un tavolino, scritto nel pieno della trattativa sul contratto FIAT che porò successivamente la casa automobilistica italiana alla formulazione del contratto separato – prima a Pomigliano, poi a Mirafiori e infine a tutto il gruppo – con conseguente estromissione della FIOM dagli stabilimenti e l’uscita da Confindustria.
Le parole di Deaglio, seppure certamente brutali se calate in contesti di esperienze lavorative reali, hanno tuttavia il merito di affrontare in maniera diretta i problemi della più grande conquista sociale dell’epoca contemporanea, il welfare state.
Nato come progressiva concessione di diritti da parte delle classi padronali per contrastare in maniera proattiva la diffusione delle istanze socialiste e poi comuniste, il welfare state è stato codificato nella seconda metà del XX secolo in una serie di misure assistenziali e previdenziali che nel breve spazio di un paio di generazioni si sono ritagliate un posto nel paniere dei diritti che uno Stato riserva ai propri cittadini.
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