Sud Sudan, l’assordante silenzio delle trattative di pace
Sono state definite “sconvolgenti” le condizioni della città di Bor, capoluogo dello stato di Jonglei, dai funzionari governativi che vi sono entrati dopo la riconquista da parte dell’esercito fedele al presidente Salva Kiir. Per Bor infatti si è combattuto duramente e la città è passata di mano più volte. La stessa cosa è successa per la capitale dello stato di Unity, Bentiu. Si tratta ormai di città fantasma, rase al suolo, deserte. Al loro interno vi è solo distruzione, ma prima che venissero distrutte al loro interno si devono essere consumate le peggiori violazioni dei diritti umani, sia sulla popolazione civile che sui soldati perdenti dell’una e dell’altra parte. I più fortunati, quelli che sono riusciti a scappare, sono andati ad ingrossare le fila dei profughi che ormai si contano in centinaia di migliaia di fuggiaschi, in gran parte ammassati, senza aiuti, nello stato dei Lakes.
In questo quadro tutte le notizie che arrivano dalle zone dei combattimenti vanno prese con “beneficio di inventario” perché si tratta di notizie che non possono essere confermate da fonti indipendenti, cioè da fonti che non siano quelle degli stessi combattenti. Sul posto infatti non c’è nessuno: cooperanti, funzionari delle agenzie dell’Onu, missionari, giornalisti.
Mentre accade tutto questo da Addis Abeba, dove si svolgono le trattative di Pace (o almeno per un preventivo, e magari fragile, cessate il fuoco), arriva un assordante silenzio. Una conferma del fatto che i due signori della guerra di questo conflitto, il presidente Salva Kiir e il suo rivale Riek Machar, al momento non hanno nessuna intenzione di fermare la guerra ma vogliono consolidare e rafforzare la loro posizione sul terreno e soprattutto tenere sotto controllo i tre stati cruciali legati alla produzione petrolifera, cioè Unity, Jonglei e Upper Nile.
Intanto, dietro le quinte, si svolgono trattative politiche sul futuro assetto della regione e sugli equilibri politici regionali. In gioco c’è una partita enorme, cioè chi sarà il maggiore utilizzatore finale del greggio che risiede nel sottosuolo del Sud Sudan: i cinesi e alcune potenze asiatiche che hanno già contratti firmati ancora con il governo di Khartoum? O alcune potenze occidentali che puntano a costruire un oleodotto che sbocchi in territorio keniano, al confine con la Somalia, di fronte all’isola di Lamu? O altre potenze ancora che vorrebbero un oleodotto interno che convogli il greggio in Uganda (assieme a quello di altri giacimenti regionali) per meglio sfruttare la ricchezza mineraria dei Grandi Laghi?
Ecco perché tutto si può dire della guerra in Sud Sudan ma non che sia un conflitto etnico tra Dinka e Nuer. Anzi, queste due grandi e gloriose etnie sono le prime vittime (a parte i signori della guerra, i numerosi faccendieri e qualche fanatico guerrafondaio)di una guerra che ha interessi economici e politici tutt’altro che locali.
Su questo c’è una bella intervista a Mabior Garang, figlio di John Garang, leader della guerra Sudsudanese morto in un incidente aereo, pubblicata da Fulvio Beltrami sul sito “Frammenti Africani”.
Raffaele Masto