La settimana scandinava tra scandali e mal di pancia
La settimana scandinava tra scandali e mal di pancia
Dallo scandalo che ha rischiato di travolgere la premier danese Helle Thorning-Schmidt ai mal di pancia nel partito socialdemocratico svedese, passando attraverso i sondaggi sorprendentemente negativi che mettono paura al Partito del Progresso norvegese: la settimana in Scandinavia si muove tra accuse, alleanze e spunti di riflessione.
In Svezia, Björn Fries ha deciso di lasciare dopo 40 anni il partito socialdemocratico per aderire al Partito della Sinistra. Dice di aver preso questa decisione perché ormai in Svezia solo il Partito della Sinistra si interessa davvero delle questioni sociali.
Björn Fries non è la prima personalità di sinistra che va a cercare lidi politici più consoni alle proprie inclinazioni. A novembre dell’anno scorso, lo stesso identico tragitto – dai laburisti al Partito della Sinistra – l’aveva compiuto Claes Borgström. E già allora sui giornali la cosa aveva avuto grande risalto. Pare insomma che serpeggi un certo malumore tra alcuni esponenti socialdemocratici, gente che rimprovera al leader Stefan Löfven di aver spostato la politica del partito un po’ troppo a destra. Parliamo per ora di una percentuale ristretta (10 per cento, stando ai numeri pubblicati dal quotidiano Aftonbladet) ma sufficiente a sollevare un interrogativo circa la strada imboccata dal partito socialdemocratico svedese.
E a proposito di Partito della Sinistra: tra i laburisti prevale la convinzione che dopo il voto in programma il prossimo settembre, qualora i numeri lo ritenessero necessario, si dovrà intavolare una trattativa proprio con il Partito della Sinistra per la formazione di un governo. Sono molto pochi invece quelli che pensano a un accordo con uno dei partiti che oggi compongono la coalizione di centrodestra, voce circolata in Svezia nelle ultime settimane.
In Norvegia c’è un clima diverso considerato che le elezioni sono alle spalle. A dominare lo scenario politico degli ultimi giorni è stato un sondaggio secondo il quale il Partito del Progresso che governa il paese insieme alla Destra perde terreno nel gradimento degli elettori: 11,7 per cento, stando all’analisi pubblicata da NRK. Si fosse votato adesso, il partito avrebbe mandato in Parlamento 19 membri e non i 29 eletti grazie al 16,3 per cento ottenuto lo scorso settembre. Una sforbiciata nettissima.
Nel partito si cerca di prendere questi numeri con serenità, confidando nella risposta che i norvegesi daranno una volta che le politiche del partito saranno più evidenti. Il fatto è che il problema non è dell’esecutivo in sé, ma solo del Partito del Progresso. L’altro partner di governo, infatti, se la passa decisamente meglio. Il partito della Destra del primo ministro Solberg guadagna terreno e sale al 30,5 per cento.
Qualche analista ha sottolineato come tutto ciò assomigli tanto a quanto vissuto negli anni scorsi dal Partito della Sinistra Socialista e dal Partito di Centro, entrambi parte di un governo dove la forza politica più influente era il partito laburista, tanto da finire per esserne oscurati perdendo riconoscibilità di fronte ai propri elettori – e di conseguenza voti. Il Partito del Progresso potrebbe dover affrontare gli stessi problemi.
Negli stessi giorni in cui in Norvegia si discuteva di questo, in Danimarca il governo rischiava di essere travolto da uno scandalo. E non è detto che il pericolo sia rientrato. A rischiare grosso è stata la premier laburista Helle Thorning-Schmidt, avvicinatasi pericolosamente alla vicenda che è già costata la poltrona all’ex ministro della Giustizia Morten Bødskov.
Parliamo della storia che ha tenuto banco in Danimarca nelle ultime settimane del 2013: l’ex leader del Partito Popolare Danese Pia Kjærsgaard, infatti, è stata spiata dalla PET (l’agenzia per la sicurezza interna): un’operazione pensata per evitare una visita a Christiania, quartiere parzialmente autogovernato a Copenhagen. E un ruolo l’ha giocato anche Bødskov, che di fronte al Parlamento per settimane aveva negato qualunque coinvolgimento. Quando a metà dicembre è emersa la verità, Bødskov ha dovuto lasciare il dicastero.
La scorsa settimana, la vicenda è tornata prepotentemente in primo piano dopo la pubblicazione di alcuni documenti che hanno sollevato un dubbio: Thorning-Schmidt sapeva?
La prima reazione della segreteria del primo ministro è stata un no categorico: né Thorning-Schmidt né suoi collaboratori erano stati messi al corrente della vicenda. Venerdì scorso però la situazione si è complicata e la premier ha dovuto correggere il tiro. Di fronte a una commissione parlamentare, Thorning-Schmidt ha ammesso di aver letto alcune bozze con le spiegazioni che Bødskov stava preparando per rispondere alle domande del Parlamento.
Si è difesa attaccando, Thorning-Schmidt, affermando che “non ci sono basi giuridiche per pensare che io sia stata negligente”.
Ma a quel punto il dibattito aveva già preso fuoco. “La premier deve dimettersi se si scoprisse un suo coinvolgimento” ha dichiarato l’Alleanza Liberale, uno dei partiti all’opposizione, tra primi ad esprimersi. La questione del resto è anche politica. A gettare una ciambella di salvataggio alla premier è stata l’Alleanza Rosso-Verde che sostiene dall’esterno il governo, secondo la quale Thorning-Schmidt ha di certo sbagliato ma il caso non va strumentalizzato.
Risultato: un rimprovero formale del Parlamento – salvo ulteriori sviluppi. Ma per il governo si tratta ugualmente di un colpo duro che potrebbe minarne la credibilità. Da novembre a oggi l’esecutivo ha perso tre ministri, due dei quali ‘colpevoli’ di aver mentito di fronte ai propri colleghi deputati, e quindi ai cittadini. Ora la tempesta arriva a lambire le sponde dell’ufficio del primo ministro. Più su di così non si può andare.
Molti commentatori danesi hanno sottolineato come la gestione della faccenda abbia lasciato a desiderare: ammettendo che da parte dei più alti vertici governatici non si sia stata l’intenzione di mentire, è comunque venuta a galla l’incapacità di affrontare efficacemente situazioni del genere. E questa è già una colpa gravissima.
Antonio Scafati