L’Argentina fa tremare i mercati, ma non è l’epicentro della prossima “crisi del tapering”
L’Argentina fa tremare i mercati, ma non è l’epicentro della prossima “crisi del tapering”
L’ottava di borsa conclusasi il 24 gennaio ha portato con sé i peggiori ribassi degli ultimi mesi, a causa dall’esplosione delle prime tensioni collegate al venir meno della liquidità delle banche centrali, cui i mercati erano stati abituati negli ultimi anni. Ciò ha comportato uno spostamento del denaro dagli attivi relativamente più rischiosi, ovvero quelli dei paesi emergenti nonché della periferia Europea come si può riscontrare dalla nuova fiammata dello spread italiano, verso i cosiddetti safe haven, come i Bund tedeschi e lo yen giapponese.
L’innesco della crisi (ma non l’epicentro, visto l’isolamento internazionale di Buenos Aires) è stato la decisione della banca centrale della Repubblica Argentina di lasciar deprezzare il peso dopo anni in cui è stato sostenuto un cambio quasi fisso contro il dollaro. Tale decisione è arrivata poiché la difesa del cambio era diventata ormai è eccessivamente costosa e le riserve valutarie si stanno consumando al ritmo di un miliardo di dollari al mese e sono attualmente sotto i 29 miliardi di dollari, in calo di oltre il 30 per cento rispetto ad un anno prima.
Gli squilibri economici argentini sono stati denunciati a più riprese poiché il governo ha gestito i problemi interni nel modo più amatoriale possibile, tanto che anche i trucchi contabili messi a punto per tentare di mascherare la triste realtà, come un tasso d’inflazione ufficiale pari ad un terzo di quello reale, risultavano facilmente smentibili. Nel frattempo, dal 2011, sono stati attuati controlli valutari sempre più feroci e folli nel tentativo di fermare l’emorragia di valuta forte, fino a rasentare paurose restrizioni delle libertà personali.
Il Paese non può permettersi di lasciar correre tale perdita di sangue: l’Argentina ha attualmente un deficit energetico da pagare in dollari da circa 10 miliardi e già attualmente la popolazione deve fare i conti con continui blackout. Come si può notare con un deficit siffatto le riserve rischiano di diventare troppo sottili in troppo poco tempo.
Il problema principale è soprattutto legato al fatto che la valuta forte esce dall’Argentina ma non vi entra, poiché il paese ha una brutta nomea quando si tratta di rispettare contratti e proprietà privata. Proprio nel tentativo di uscire dalla vicolo cieco in cui il governo della signora Fernandez de Kirchner si è cacciato, Buenos Aires sta tentando di correggere le sciocchezza compiute con somma e vuota arroganza negli ultimi anni: ecco dunque l’offerta di indennizzare Repsol per la nazionalizzazione di YPF, per la modica cifra di 8 miliardi, o quella di onorare finalmente il debito da 10 miliardi pendente con il club di Parigi. Peccato che nessuno prenda sul serio il Paese, che oltre ad essere parìa sui mercati, è talmente inaffidabile da essere una barzelletta: il primo motivo per cui non ci si può fidare dell’Argentina è che le promesse non sono state mai mantenute. Il debito con il club di Parigi doveva essere onorato nel 2008, disse la señora Fernandez, ma non è successo, sicché è lievitato da 7 a 10 miliardi. Insomma, pagare moneta, vedere cammello.
Un altro motivo per il quale l‘Argentina difficilmente uscirà dal buco è che il pagamento di tutte queste somme (per non parlare di altre che potrebbero piombare presto a breve) farebbe scendere le riserve valutarie velocemente a zero: se si considera il deficit energetico il governo potrebbe avere un anno o poco più per risolvere ritornare a respirare.
Ma un anno è troppo poco, visto che nel frattempo sarà necessario porre in essere un doloroso riequilibrio fiscale dopo anni di scelleratezza, e va pure tenuto da conto che il governo si prepara ad assegnare altri 600 pesos di sussidi ai NEET,ergo non sembra per nulla pronto ad affrontare la realtà fatta di sacrifici dolorosi. Buenos Aires avrebbe dovuto intervenire prima, quando le riserve valutare erano sufficienti ad assicurare un maggiore margine di manovra (il predecessore nonché marito dell’attuale presidente lasciò in dote riserve per 80 miliardi), invece di accusare il turbocapitalismo e il complotto internazionale per problemi squisitamente interni e collegati ad un malgoverno corrotto che ha del clamoroso. Adesso vi sono elevatissime probabilità (oltre l’80 per cento entro 5 anni, stando ai CDS) che il successore del presidente Fernandez, da eleggersi nell’ottobre 2015 salvo collassi, debba governare sulle macerie. Per l’ennesima volta nella storia di questo sfortunato paese.
L’Argentina questa volta non potrà ottenere gli aiuti di emergenza sinora assicurati dai partner come il Venezuela, che sta avendo a sua volta gravissimi problemi, collegati ancora una volta al malgoverno del successore del padre della patria Hugo Chavez, ovvero quel Nicolas Maduro che sembra essere capace solo di ricordare le gesta del suo predecessore, ma non di tenere in piedi l’economia.
Il discorso relativo ai punti critici che potrebbero togliere il sonno agli investitori (e non solo) sono numerosi e spaziano dall’Ucraina sull’orlo di una guerra civile alla Turchia dove lo scandalo corruzione ha indebolito un governo che già prima dello stesso non sembrava in grado di governare la crisi economica, passando poi alle piccole scosse che arrivano da paesi instabili come la Thailandia e dunque alle crepe che cominciano a vedersi in Cina ed India. Va aggiunto all’elenco dei pericoli anche la Russia, un paese sempre più basato sulle sue ricchezze energetiche, e che potrebbe pertanto passare un brutto quarto d’ora se il prezzo del petrolio dovesse decidere di prendersi una pausa a livelli di prezzo più bassi (intorno ai 60 dollari). Non vanno infine dimenticati i problemi europei e soprattutto di quei paesi avanzati che potrebbero essere declassati in un tempo relativamente breve a paesi emergenti come la Spagna e l’Italia. Insomma, la fine della liquidità facile lascerà una difficile eredità per quei Paesi che non ne hanno approfittato per riformare, e che quindi si ritroveranno a passare mesi difficili: le probabilità che qualche attore rimanga sul terreno, scatenando qualche nuova tempesta globale, restano elevate.
L’agenda macroeconomica a partire dalla giornata di martedì 28 gennaio prevede il rilascio della stima del prodotto interno lordo del Regno Unito che dovrebbe attestarsi ad una crescita trimestrale dello 0,7 per cento; gli Stati Uniti renderanno note le statistiche relative agli ordinativi di beni durevoli che dovrebbero dare qualche indicazione sul futuro della produzione a stelle e strisce: il dato è previsto il rallentamento su base mensile, con una crescita di mezzo punto percentuale.
Mercoledì conosceremo il livello della fiducia delle aziende italiane che dovrebbe tuttavia rimanere stabile o in leggero miglioramento. Andranno in asta BOT italiani semestrali e Bund tedeschi a 10 anni. La giornata sarà importante soprattutto per via del meeting della Federal Reserve, l’ultimo guidato dal presidente Ben Bernanke e che lascerà il posto a partire da febbraio all’attuale vice Janet Yellen: è possibile che si decida per un nuovo taglio da 10 miliardi del quantitative easing.
Giovedì il Pmi manifatturiero cinese dovrebbe confermarsi a 49,6 punti, e quindi sotto la soglia dei 50 punti che separa la contrazione dall’espansione economica; l’Italia offrirà agli investitori Btp a cinque e dieci anni; atteso in negativo l’indice dei prezzi al consumo in Germania su base mensile, anche se su base annua dovrebbe esserci una limatura al rialzo e quindi una crescita dell’ 1,5 per cento; gli Stati Uniti rilasceranno la stima preliminare del prodotto interno lordo, che dovrebbe essere cresciuto su base trimestrale del 3,2 per cento; i jobless claims dovrebbero rimanere intorno alle 330 mila unità.
Venerdì il Giappone tornerà ad aggiornarci circa i suoi progressi nella lotta alla deflazione: non dovrebbero esserci novità e quindi è lecito attendersi una variazione positiva, anche se trainata dal maggior costo delle importazioni, più che da un ritorno in vita dei consumi interni. L’Italia rilascerà il dato relativo al tasso di disoccupazione, che dovrebbe restare fermo al 12,7 per cento. Verrà poi resa nota la stima preliminare dell’indice dei prezzi al consumo relativo all’area euro, che, pur in lieve miglioramento, dovrebbe comunque rimanere sotto il punto percentuale, alimentando i timori relativi ad un futuro di deflazione.
Giovanni De Mizio