L’idea di una fusione tra Pd e Sel, o di un ingresso della formazione vendoliana all’interno del Partito Democratico, non è un dibattito nato ieri.
Tra i primissimi che teorizzarono la possibilità di un “destino comune” ci fu Dario Franceschini che addirittura nel 2009, alla vigilia però delle controverse primarie di coalizione pugliesi, dichiarò (in occasione di una presentazione di un libro con Vendola in Basilicata) “non capisco perché Nichi non stia nel nostro partito”. La mossa più che avere connotati sistemici legati al futuro della sinistra italiana, era mirata ad evidenziare la forzatura bersaniana nel riproporre il lettiano Francesco Boccia alle primarie del centrosinistra. Mossa avventata tesa secondo i proponenti ad allargare il campo all’Udc di Casini, forza politica dotata di un discreto seguito elettorale nella regione. Ne uscì fuori la seconda sconfitta di fila di Boccia, la prima grande figuraccia del Pd a trazione bersaniana e la nascita dell’appellativo, coniato proprio allora qui sul Termometro Politico, di “Boccia, il Mariano Rajoy di Bisceglie” (definizione quest’ultima passata di moda, a seguito della vittoria dei popolari spagnoli nel novembre 2011, e modificata in “l’Adlai Stevenson di BAT”).
Successivamente Vendola è stato visto dal fronte democratico più come una minaccia alla leadership bersaniana che altro (a seguito della disfatta parlamentare del 14 dicembre 2010 Vendola dichiarò di essere pronto…ad assumere la guida del centrosinistra!) e i propositi di unire le due formazioni e semplificare il quadro politico furono del tutto accantonati.
Curiosamente si ricomincia a parlare di questa ipotesi a seguito della fine del “momentum vendoliano”, che porterà al governatore pugliese il 15% dei consensi alle primarie del 2012, e in concomitanza con quella che risultò essere a tratti un’ingiustificata infatuazione del popolo della sinistra per Fabrizio Barca. Il ministro della coesione territoriale del governo Monti infatti pur dichiarando la propria vicinanza al partito di Bersani dichiarò di non aver “mai votato alle elezioni per il Partito Democratico”, palesando in questo modo il suo sostegno nel passato a Sel e segnalandosi come una possibile personalità di cerniera tra i due mondi.
A seguito del fallimento della coalizione di “Italia. Bene Comune”, della nascita del governo Letta e del calo nei sondaggi di Sinistra Ecologia e Libertà, che non sembra capitalizzare il suo ruolo di opposizione di sinistra al governo delle Larghe Intese, si ritorna a parlare dell’ipotesi. Ma proprio in casa vendoliana.
Finché al secondo congresso nazionale del partito a Riccione il presidente della Regione Puglia afferma che non si può chiedere a Sel di confluire nel Pd, casomai bisogna fondare insieme un nuovo cantiere del centrosinistra. Il fatto che il giorno dopo questa affermazione Matteo Renzi abbia evitato di farsi vedere alla kermesse vendoliana, preferendo farsi rappresentare dal responsabile enti locali del partito Stefano Bonaccini, è a suo modo sintomatico.
Alle europee i due partiti correranno da soli, come la logica del proporzionale vuole (e anche quella delle candidature per l’elezione diretta del Presidente della Commissione Europea). Dopo si vedrà. Peccato che quel “dopo” rischia di ridimensionare seriamente Sel che oggi come oggi rischia fortemente non raggiungere il quorum del 4% per accedere al Parlamento di Strasburgo.
E Sel, rifiutandosi di lavorare ad una semplificazione del quadro partitico per via politica, corre lo stesso il rischio di scomparire. Ma attraverso il voto degli elettori.