Il governo danese che perde i pezzi, il governo finlandese diviso sulle scelte economiche, il governo islandese che non piace agli elettori: per tanti esecutivi scandinavi, quella appena trascorsa è stata una settimana difficile.
Protagonista assoluta è stata la Danimarca. Giovedì scorso il Partito Popolare Socialista è uscito dal governo. A darne l’annuncio la leader Annette Vilhelmsen, che ha lasciato il suo incarico al dicastero per gli Affari Sociali e l’Integrazione e si è portata dietro sei ministri. Motivo: la decisione del governo di vendere parte del pacchetto azionario del gruppo energetico statale DONG all’americana Goldman Sachs, uno degli argomenti caldi delle ultime settimane. Contrario il suo partito, un partito che Vilhelmsen non è riuscita a convincere. Questo l’ha costretta a decisioni drastiche.
Vilhelmsen infatti ha abbandonato anche la carica di leader del partito. Un congresso straordinario servirà per scegliere a chi affidare il timone ma anche per fare ordine in un partito lacerato da guerre interne. L’elezione di Vilhelmsen, nell’ottobre del 2012, era già stata teatro di scontri. A contenderle la poltrona c’era stata un’altra donna: Astrid Krag, che proprio giovedì scorso ha deciso di passare ai socialdemocratici: “Il Partito Popolare Socialista non è più il partito del cambiamento” ha dichiarato.
Di sicuro non è più un partito di cui la gente si fida. I consensi sono bassissimi ormai da due anni e mezzo. Far parte di un governo spesso accusato di condurre politiche di centrodestra non ha aiutato. Sondaggi negativi, fermenti interni, leadership contrastate: l’affare DONG è stata solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso pieno fino all’orlo ormai da un po’.
La premier Thorning-Schmidt ha smentito ipotesi di elezioni anticipate. Il Partito Popolare Socialista continuerà ad appoggiare da fuori un governo ora composto solo dai laburisti e dai centristi della Sinistra Radicale. Secondo alcuni commentatori l’uscita di scena del Partito Popolare Socialista non è cosa negativa, ma gli elettori sembrano pensarla diversamente: solo il 12 per cento crede che il governo ne esca più forte.
Lunedì mattina Helle Thorning-Schmidt ha presentato il suo nuovo gabinetto. Prima la visita alla regina, poi l’incontro con la stampa. C’erano da riempire le caselle lasciate vuote dal Partito Popolare Socialista, ma la premier ne ha approfittato per cambiare di posto a diversi ministri, ridisegnando profondamente il gruppo intorno a sé. Affidandosi per lo più a persone di sua fiducia. E fa sensazione pensare che solo poche settimane fa, dopo aver presentato l’ennesimo rimpasto, Thorning-Schmidt dichiarava che quella squadra di governo sarebbe arrivata a fine legislatura.
Cambiati gli interpreti, vanno ridefiniti anche gli obiettivi. Lo slogan è ‘più lavoro e più welfare’. Probabile però che in campo economico non ci saranno molte differenze: “Continueremo a perseguire una politica economica responsabile” ha dichiarato la premier, “continueremo ad attuare le riforme che riteniamo essenziali”.
In Finlandia, invece, una parte importante del governo chiede di cambiare rotta proprio in campo economico. Negli ultimi giorni, a parlare è stata Jutta Urpilainen secondo la quale è sbagliato procedere con altri tre miliardi di euro di tagli per tenere sotto controllo il debito pubblico. La leader del partito socialdemocratico, nonché ministro delle Finanze, ha dichiarato che “dobbiamo certamente interrompere la crescita del debito, ma allo stesso tempo dovremmo essere sicuri che le nostre azioni non finiscano per indebolire l’economia del paese”. Parole simili a quelle utilizzate una decina di giorni fa da Paavo Arhinmäki, ministro della Cultura e dello Sport e leader dell’Alleanza di Sinistra, altro partito al governo, secondo il quale un ulteriore taglio alla spesa pubblica rischierebbe di fare del male all’economia finlandese.
Il premier Katainen ha aperto a qualche correzione di rotta: “Gli effetti di un taglio alla spesa pubblica o di un aumento delle tasse sono da valutare bene, per capire le ripercussioni sulla crescita economica e sull’occupazione” ha detto, “il governo deciderà basandosi sul parere dei migliori esperti che abbiamo in Finlandia”. La decisione definitiva, ha aggiunto Katainen, verrà presa solo a marzo: c’è quindi tutto il tempo per trovare un equilibrio anche all’interno del governo.
Una buona notizia per Jutta Urpilainen, che di sicuro legge i sondaggi: il partito laburista è inchiodato da settimane al 15 per cento, in quarta posizione, staccato di quasi dieci punti dal Partito di Centro all’opposizione. Trascurare ancora un elettorato insoddisfatto non è un sentiero consigliabile, per i laburisti.
I sondaggi sono un problema anche per il governo islandese, alle prese con un calo costante nella fiducia degli elettori. L’operato dell’esecutivo di centrodestra non convince. A un annetto scarso dall’insediamento della nuova maggioranza, in molti scuotono la testa. Nel complesso, solo il 38 per cento promuove il primo ministro Sigmundur Davíð Gunnlaugsson e la sua squadra. Un numero che non stupisce, se si guarda il trend degli ultimi mesi: l’azione di governo non ha convinto gli islandesi che si aspettavano di più da un esecutivo arrivato al potere sull’onda di grandi promesse di rilancio.
La musica cambia se si va a indagare nelle pieghe dell’elettorato. Tra i sostenitori del Partito progressista del premier, i soddisfatti sono quasi nove su dieci. Tra quelli che votano socialdemocratico la percentuale precipita al 17 per cento. Ma neanche questo stupisce.