60 anni di tv grazie alle Teche Rai
L’età comincia a essere ragguardevole, di quelle che meritano rispetto e che faticano a nascondere i segni del tempo. Per gli appassionati delle ricorrenze e degli anniversari, il 3 gennaio del 2014 sono trascorsi 60 anni dall’inizio “ufficiale” delle trasmissioni televisive in Italia (per le sperimentazioni bisogna andare più indietro, fino al 1939): sei decenni in cui il Paese è cambiato, pur mantenendo alcuni tratti distintivi, e la televisione da una parte lo ha ritratto, dall’altra è cambiata con esso.
La Rai ripercorre quel cammino grazie a una mostra – 1924-2014, la Rai racconta l’Italia – allestita al Vittoriano a Roma e aperta fino al 16 marzo. Chi entra, accolto da una serie di costumi storici (indossati da stelle come Corrado, Raffaella Carrà, Heather Parisi), si prepara a un viaggio attraverso gli oggetti, gli strumenti di lavoro (microfoni, telecamere, cartelli…) e soprattutto le immagini e il sonoro che hanno scandito un periodo così lungo di vita italiana. Periodo che va ancora più indietro, se si considera che quest’anno si festeggiano pure i 90 anni di vita della radio.
Il materiale filmato nell’esposizione è organizzato per temi, ognuno dei quali è curato da un testimonial (Piero Angela per la scienza, Andrea Camlleri per la cultura, Sergio Zavoli per l’informazione, Bruno Pizzul per lo sport, etc.). I filmati mostrati, peraltro, sono poca cosa rispetto al patrimonio filmato conservato nelle Teche Rai. Tra i curatori della mostra al Vittoriano figura Barbara Scaramucci, direttrice di Rai Teche fin dalla costituzione della struttura nel 1996. Non ci si stupisca, dunque, se i 60 anni “ufficiali” della tv italiana ce li facciamo raccontare da lei: partendo dall’esposizione in corso, fino ai progetti per la memoria e il futuro.
Dottoressa Scaramucci, qual è stato il ruolo delle Teche Rai nella preparazione di questo primo grande evento?
Per questa mostra il nostro ruolo è stato molto significativo. Noi abbiamo realizzato assieme alla società Comunicare organizzando – che come responsabile delle mostre al Vittoriano di Roma ha allestito l’esposizione – l’intera mostra, occupandoci di ritrovare tutti i materiali cartacei storici, ritrovando tutti i materiali televisivi lavorando al fianco dei curatori delle singole sezioni tv che hanno realizzato i filmati antologici proiettati a parete e i focus disponibili sui touch screen. Tutto questo lavoro è stato fatto con alcuni uffici della direzione Teche, considerando anche le postazioni radiofoniche curate da Marcello Sorgi. Il lavoro è stato molto complesso e interessante: è stato bello lavorare con grandi autori come Sergio Zavoli, Piero Angela e tutti gli altri, ma certamente molto impegnativo. La mostra, in quanto tale, resterà allestita fino al 30 marzo, poi si sposterà a Milano e, quasi certamente, dopo l’estate toccherà anche Torino e Napoli.
Come si sono mosse, in generale, le Teche per marcare questo anniversario?
Al di fuori della mostra, il contributo delle Teche è un contributo soprattutto di ricerca e supporto alle strutture editoriali che utilizzano il materiale di archivio, ciascuna con una sua impostazione, con propri programmisti e autori. Si andrà da chi ripercorrerà il Festival di Sanremo ai cicli di Rai Storia, alle serate di Vespa e così via. Abbiamo anche pubblicato – l’ho curato io insieme a Claudio Ferretti, come dieci anni fa – un aggiornamento del grosso volume pubblicato nel 2004, RicordeRai, che alla storia del primo mezzo secolo di tv ufficiale ha aggiunto il racconto dell’ultimo decennio. In più, in occasione dei 60 anni di trasmissioni televisive e dei 90 anni di programmi radiofonici, abbiamo messo online l’intero archivio del Radiocorriere, a partire dal 1925: una risorsa che per il mondo degli studiosi ha un valore particolare.
Come è stato scelto il materiale visibile alla mostra?
Alla base c’è stato un lavoro autorale: gli autori ci dato una serie di indicazioni, noi abbiamo svolto ricerche, abbiamo presentato i nostri elenchi e insieme sono stati definiti esattamente gli spezzoni, i titoli, insomma i singoli materiali da utilizzare. Il lavoro, nel caso della mostra, è partito dagli autori. Parte da loro anche per la messa in onda dei programmi celebrativi: noi abbiamo una competenza di supporto, possiamo suggerire chicche o materiali poco utilizzati, ma la gestione editoriale è comunque degli autori.
Lei di fatto si è occupata delle Teche fin dall’inizio: che ritratto dell’Italia e degli italiani emerge, secondo lei, da questo archivio?
Beh, un ritratto certamente realistico. L’Italia degli anni ’50 appare oggi, io credo, alle generazioni più giovani come “la storia”, più simile a come apparivano a noi sessantenni di oggi gli anni Dieci. Quelle interviste a contadini che non sapevano leggere né scrivere, che come desiderio citavano “mangiare ogni tanto la carne” appaiono a molti un pezzo di storia a tutti gli effetti, qualcosa che appartiene totalmente al passato. Sempre di più, poi, c’è un fatto anche iconografico: i più giovani identificano il passato con il bianco e nero, mentre la contemporaneità inizia con il colore, dunque il “passato” per loro arriva fino alla metà inoltrata degli anni ’70. La televisione poi diventa “ricchissima” e favolosa negli anni ’60: l’esempio più citato è Studio Uno, varietà bellissimo, moderno ancora oggi, ritratto di un Paese che cresce, vince l’Oscar della moneta e si riscatta dalla sconfitta nella guerra; in quel periodo si “scopre” l’uso dell’automobile, si costruisce l’Autostrada del Sole, si fanno le vacanze… La televisione di allora rappresenta perfettamente tutto questo, ma al tempo stesso mostra una realtà in cui sopravvivono principi anche un po’ “bacchettoni” e conservatori, che ripropone i grandi romanzi classici e del patrimonio scolastico: pensi che il nostro teleromanzo, quello dei Promessi sposi o di Delitto e castigo, in quegli anni fu preso a modello persino dalla mitica Bbc. Poi sono arrivati gli anni ’70, molto creativi, anni di grandi riforme, per cui anche la tv è molto creativa: parte il progetto della Rete2, con Renzo Arbore in radio e in televisione, iniziano programmi come Odeon… si rompono gli schemi insomma.
Sono anni in cui si rompono anche gli schermi però…
Già, sono anche gli anni in cui la televisione racconta quelli che ormai abbiamo fatto passare alla storia come “anni di piombo”, narrando una tragedia quotidiana di morti, manifestazioni… Io credo che guardare nell’archivio televisivo sia il modo migliore, per uno storico della contemporaneità, di ricostruire in modo molto realistico ciò che è accaduto: la fonte televisiva è utilizzatissima, ne fanno uso continuo figure come Guido Crainz e Peppino Ortoleva (ma se ne potrebbero citare altre), noi stessi forniamo i materiali per le attività didattiche ai dipartimenti universitari. Naturalmente ci sono cose belle e cose brutte, prodotti fatti bene e altri fatti meno bene, ma anche questi ultimi spesso raccontano quel tipo di paese. Ricordo ancora che, quando iniziai questo lavoro, era presidente il compianto Enzo Siciliano e mi chiese: “Ma mettiamo in archivio anche Macao?”…
Come no, lo ricordo bene, “Ahi ahi / limon limonero”: secondi anni ’90, regia di Gianni Boncompagni, conduceva Alba Parietti.
Esatto… e io gli dissi: “Presidente, sì”. Ricordiamo che Alto gradimento, all’inizio, veniva considerato come un programma in cui due pazzi dicevano scemenze… Oggi, vedendo Macao, “limon limonero”, si capisce perfettamente quel momento degli anni ’90, è significativo: è questa, secondo me, la forza del documento televisivo.
Ma, secondo lei, nell’evoluzione (o involuzione) dei tempi, gli italiani che escono dalle Teche continuano a somigliare a se stessi col passare dei tempi, o sono cambiati così tanto da non somigliarsi proprio più?
Così tanto non direi, però siamo cambiati: lei ha trent’anni, è quasi un nativo digitale… cos’è per un trentenne oggi la televisione? Uno dei tanti supporti, uno dei tanti device di cui dispone: se gli va vede delle notizie, ma in linea di massima all’ora dei telegiornali già le sa perché le ha lette sullo smartphone o le ha sapute altrove; se gli va vede un programma, ma eventualmente rimanda e magari guarda lo spezzone comico su YouTube. Ecco, credo che questo italiano sia abbastanza diverso da quello degli anni ’60, ma purtroppo non solo in questo, che sarebbe un aspetto anche positivo: questo paese è molto più povero, penso anche molto meno riformatore di quanto non fosse in quegli anni.
Il ruolo di Rai Teche sembra ormai insostituibile per i palinsesti tv: ritiene corretta questa ricostruzione?
Sì, è insostituibile e lo sarà sempre di più: bisogna fare tanta offerta, bisogna farla meno…
Meno costosa?
Eh sì. Credo che, fortunatamente, avendo noi più di un milione di ore di televisione e avendo anche prodotti molto interessanti, che spesso vanno in onda in quelle fasce orarie “minori”, come i programmi culturali ed educativi che vanno in terza serata…
Gli orari per i medici di guardia, secondo Sergio Zavoli.
Ecco, quando invece queste cose possono essere riutilizzate su un canale tematico, per un pubblico più specifiche, sono molto importanti e significative. Credo quindi che sia davvero un grande asset per la Rai avere questo archivio così ricco e, tutto sommato, anche se in larga parte è ancora da digitalizzare, non così malmesso.
E’ riuscita, in questi anni, a comprendere esattamente la portata dei “vuoti di memoria”, cioè di aree più o meno ampie di cui le Teche non hanno conservato testimonianza? Penso a Settevoci, di cui Baudo ha parlato spesso…
Altroché, questo è un censimento che abbiamo pressoché completato. Direi che le carenze maggiori sono sugli anni ’50, prima ancora dell’avvento della registrazione videomagnetica: ci sono quasi solo materiali filmati senza il sonoro, perché le pellicole audio venivano riutilizzate. E’ piuttosto forte la stagione dei ’60, c’è quasi tutto in archivio, ma ci sono produzioni – soprattutto della Tv dei ragazzi – che sono state in qualche modo vittima di una concezione “usa-e-getta” della tv e di una concezione non favorevole agli archivi, costosi e allora bisognosi di molto spazio: abbiamo trovato tanti ordini di servizio che, ad esempio, chiedono di conservare tre puntate di una trasmissione, mandando alla distruzione le altre. Ci sono dunque inevitabilmente dei buchi: quanto a Settevoci, ci siamo sempre chiesti se non sia accaduto qualcosa, in quella stagione l’Ampex c’era già, chissà perché non è stata conservata. Altri supporti, per dire, si sono anche deteriorati o non sono stati conservati a regola d’arte, ma questo problema riguarda una piccola parte, minore di quella che è stata consapevolmente eliminata: materiale che, una volta perduto, non è recuperabile. Dagli anni ’80 comunque è stato conservato tutto; paradossalmente, si è iniziato a conservare tutto nello stesso periodo in cui ha iniziato a diffondersi la registrazione su videocassette VHS, supporto che quindi non può coprire i buchi precedenti.
Peccato però che il patrimonio delle Teche sia ancora fruibile direttamente dai telespettatori solo in minima parte: è solo un problema di diritti?
Questo problema lo capisco perfettamente, perché per consultare il catalogo completo bisogna andare nelle sedi Rai: credo che, con il tempo e con la digitalizzazione definitiva, una buona parte del materiale finirà direttamente sul web. Naturalmente penso più facilmente alla parte di informazione, perché sull’intero settore dell’intrattenimento c’è il problema molto impegnativo dei diritti, che durano moltissimi anni (come diritti d’autore o di esecuzione). Negli ultimi anni, poi, avendo meno disponibilità economica, la Rai ha concluso contratti garantendo innanzitutto la messa in onda televisiva, lasciando nella disponibilità dei produttori i diritti multimediali. Io credo assolutamente alla tutela della proprietà intellettuale, ma certamente si vive tra pirateria spinta e regole molto coercitive per gli editori: prenda ad esempio una serata di Celentano, che da contratto non può essere riutilizzata in alcun modo se non per alcuni passaggi televisivi integrali, ma magari il giorno dopo è finita su YouTube con alcuni spezzoni. E’ uno scenario un po’ paradossale.
Sarebbe possibile, secondo lei, tradurre in concreto un “diritto alla memoria tv”, rendendo più accessibile il patrimonio archivistico che non riguarda le fiction (che un mercato già ce l’hanno) o l’intrattenimento-varietà (che dà più problemi coi diritti)? Nel caso, in quanto tempo?
Il direttore generale Luigi Gubitosi innanzitutto ha avviato un piano “operativissimo” di digitalizzazione in alta qualità per la teca master, in più ha annunciato che progressivamente la parte che la Rai può gestire liberamente sarà messa sul web. Se vuole una mia opinione personale, penso che nel giro di cinque anni si vedranno dei cambiamenti notevoli. Non so poi che politiche potranno essere adottate, ad esempio in un ottica di privilegio nei confronti degli abbonati: usufruendo anche di un canone, probabilmente dovremo mettere sul piatto qualcosa di specifico in questo senso.
Tagliato il traguardo dei 60 anni “ufficiali”, su quali generi la Rai dovrebbe puntare?
Credo che l’informazione debba cambiare un po’ impostazione: non credo occorrano più tante edizioni di notiziari, dal momento che c’è un canale all news, mentre gli altri canali dovrebbero offrire sempre di più forme di inchiesta e approfondimento, che si prestano meno facilmente alla fruizione su un cellulare o via internet. Occorre offrire al pubblico televisivo qualcosa di più, qualcosa che gli altri non vedono: io dunque svilupperei molto inchieste e documentari.
Anche con la partecipazione degli utenti?
Assolutamente sì: oggi quasi tutti giriamo con un telefonino che può riprendere immagini o video, le telecamerine le hanno in tanti, le macchine fotografiche girano anche i video… L’uso che si può fare di questo materiale è certamente molto interessante – la Rai ha fatto un esperimento, Italy in a day, con Gabriele Salvatores – e credo che quel modello sia potenzialmente vincente. Quanto al varietà, penso di essere più a corto di idee: il varietà tradizionale sembra morto, ma quando si fa qualcosa di tradizionale ma affidato a persone brave – citiamo Fiorello per tutti, ma potrei citare l’esempio di Tale e quale show – i risultati sono ancora altissimi. Forse servono schemi nuovi, ma bisogna soprattutto trovare protagonisti bravi, all’altezza della situazione. Sul piano della fiction e dei telefilm, generi di cui sono grande fruitrice, trovo che ci siano alti e bassi incredibili: facciamo alcune fiction straordinarie, a livello dei film, e cose obiettivamente banali, brutte, non autorali, “buttate via”; tutti noi vediamo il prodotto estero e credo che, soprattutto sul versante della serialità, possiamo fare qualcosa di meglio. I ritmi che hanno dato alcune serie tv che gli italiani riescono ormai a vedere “spiazzano” un certo tipo di prodotto italiano che spesso è anche circoscritto, molto provinciale: non è un caso che Il commissario Montalbano si venda anche alla Bbc, mentre altri titoli non si vendono nemmeno ad Andorra. Il fatto è che il pubblico non si inventa.
In che senso?
La Rai sa perfettamente che, nella sua storia, il pubblico lo ha costruito, così come ha fatto gli italiani. Se si è ormai nella situazione per cui, dopo tre giorni di seguito in cui in una certa fascia oraria l’ascolto è inferiore al livello programmato, il prodotto viene chiuso, magari si chiude qualcosa che effettivamente non valeva, ma così si impedisce ogni tipo di sperimentazione di nuovi linguaggi.