Qualche riflessione sull’articolo 18 (e su tutto ciò che ne consegue)
Dopo l’approvazione, da parte del consiglio dei ministri, del decreto sulle liberalizzazioni che da il via alla famigerata “Fase 2” dell’esecutivo Monti, già si parla delle prossime tappe del nuovo governo.
Il pacchetto sulla semplificazione e, soprattutto, quella sul mercato del lavoro.
In realtà il tema del lavoro, specialmente per quanto riguarda i suoi aspetti previdenziali, è già stato trattato nel decreto “Salva Italia” che ha introdotto il sistema contributivo nel nostro paese.
[ad]Ma il piatto forte arriverà fra qualche giorno, nonostante il ministro Elsa Fornero abbia già incontrato separatamente i segretari dei sindacati confederali, l’Ugl e la Confindustria.
L’articolo 18 resta un tema scottante. Per Monti non è un tabù, alla Fornero si consiglia comunque di non trattare il tema per mere questioni strategiche, i sindacati ritrovano l’unità su questo tema e Confindustria ricorda che se c’è bisogna di flessibilità all’entrata occorre anche all’uscita.
I due punti di vista, quello sindacale e quello confindustriale, sembrano essere quelli più interessanti.
E un recente dibattito tra Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia a Bergamo senz’altro ha dato un contributo ulteriore al dibattito.
La Presidente degli industriali ha infatti dato vita ad una lunga disamina sul sistema italiano e sulle ripercussioni nel nostro paese dell’espandersi del fenomeno della globalizzazione. Da qui un invito a ripensarsi e ad ideare forme di maggiore flessibilità in campo lavorativo.
D’altro canto invece la Camusso ha ricordato come la crisi che si sta vivendo in realtà non sia causata “dai lavoratori” e che tutti gli effetti drammatici che stiamo vivendo sono frutto di una crisi di carattere finanziario che ha come epicentro naturale quei paesi dove non esistono quelle garanzie in campo lavorativo da sempre presenti in Italia.
Ma pensandoci bene, se la Camusso e la Marcegaglia stessero dicendo cose non troppo dissimili?
La crisi in atto è la conseguenza di un’eccessiva deregolamentazione dei mercati finanziari. Essendo una crisi derivata dalla finanza colpisce maggiormente, nella sua fase iniziale, i centri finanziari del pianeta. New York e Londra in testa.
Ma ormai l’economia è globalizzata e ogni crisi, così come ogni trend di crescita, tende a farsi sentire anche nelle realtà più disparate. E allora la crisi che nasce finanziaria incomincia a ripercuotersi sull’economia europea. Colpendo quei paesi a “capitalismo renano” dove è molto radicata la manifattura. Da qui a colpire i debiti sovrani degli stati, soprattutto quelli dell’Eurozona che non hanno un governo economico comune pur condividendo la stessa moneta, il passo è breve.
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[ad]Alla luce di questo quadro la Camusso invita a tornare ad una politica economica che sappia trarre insegnamento da quest’ultima crisi. Per ritornare ad una forma di maggiore regolamentazione dell’economia, con tutto ciò che ne consegue in materia di diritto. La Marcegaglia invece evidenzia le criticità della situazione in atto, indipendentemente da questa crisi, e la necessità da parte del sistema Italia di considerare maggiormente la crescita dei mercati emergenti, Cina in testa. Una crescita esponenziale che a livello globale ridisegna lo scacchiere del potere, ma che è anche una conseguenza diretta ed efficace sulle nostre imprese e sulle nostre aziende che molto spesso tendono a delocalizzare dove il costo della mano d’opera è più basso.
Come arrivare ad una sintesi?
Senz’altro le aziende oggi, se non assumono, non è per l’articolo 18. Del resto la manifattura diffusa nel nostro paese coinvolge solo il 2% delle imprese in questa partita. Ma perché c’è un evidente problema di produttività, di crescita economica e anche di apertura del mercato italiano, oggi poco attrattivo per le imprese straniere.
E quindi, indipendentemente dalla crisi in atto, è ovvio che bisogna ridare alla politica il suo ruolo e non relegare al mercato l’egemonia su tutte le branche del sociale. Ma riproporre non solo schemi keynesiani, validi nel 1929 ma empiricamente da dimostrare oggi nella loro efficacia, rischia di portare ad un eccesso di intervento statale nell’economia. Con il rischio, fra qualche anno, di assistere ad una nuova crisi questa volta non causata da un eccesso di deregolamentazione ma da un eccesso di dirigismo. E per un paese come l’Italia, dove la presenza dello stato nell’economia è sempre stata marcata, potrebbe veramente delinearsi un “italian default”. Con il contraccolpo, ideologicamente letale, che a questo situazione di troppo dirigismo ed elevata inflazione seguirebbero nuove sirene iper-liberiste capaci di portarci, dopo qualche decennio, al medesimo punto di partenza.
Comprensibile dunque sul piano strategico il fatto che non si metta in discussione l’articolo 18. Ma se questa rigidità è un totem utilizzato per evidenziare la volontà di non riformare il nostro sistema lavorativo, non solo si farà un danno al sistema paese ma sul lungo periodo quegli stessi diritti dei lavoratori rischieranno di non essere tutelati realmente alla luce della competizione globale. Commettendo, in questo modo, un imperdonabile errore di mancanza di lungimiranza e di miopia politica.