Residori (art director “il Fatto”): “la grafica del nuovo giornale? In rodaggio, ma funziona”

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Residori (art director “il Fatto”): “la grafica del nuovo giornale? In rodaggio, ma funziona”

Il “Fatto quotidiano”, il nuovo giornale diretto da Antonio Padellaro che ospita giornalisti e commentatori come Marco Travaglio, Furio Colombo, Massimo Fini, Oliviero Beha e Luca Telese, è nelle edicole dallo scorso 23 settembre. E l’impianto grafico ha fatto molto discutere, su Internet e non solo.
Ne abbiamo parlato con Paolo Residori, art director e curatore del progetto grafico del “Fatto”.
La sua intervista inaugura la nuova sezione ‘Comunicazione’ su Termometro Politico, dedicata all’analisi dei media e della comunicazione politica.

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[ad]Partiamo dagli inizi. Come è nata questa avventura? Chi l’ha chiamata al “Fatto”?
«Mi ha chiamato Antonio Padellaro, che già conoscevo avendo fatto il progetto durante la direzione Colombo-Padellaro dell’“Unità”. Mi ha telefonato dicendomi ‘faccio un nuovo giornale, Sali sul treno?’ e io gli ho risposto di sì. E da qui è nato tutto».

Quindi “l’Unità” e poi “il Fatto”.
«Sì, in realtà io nasco nel ’78 con “Paese Sera”, ho lavorato per il “Corriere dello Sport”, poi sono stato all’“Espresso”. Questa è la mia storia: ho partecipato a tanti progetti, quello del “Fatto” non era il primo e non sarà l’ultimo».

Il giornale è nelle edicole già da una settimana ma del sito web non c’è ancora traccia. Quando sarà pronto? Chi lo curerà?
«Non posso dire chi se ne occuperà: non sarò io, ma certo avrò una supervisione sull’immagine della testata. So che sicuramente sarà un ottimo sito, dovrebbe essere pronto per la fine dell’anno. Per il momento resta in piedi Antefatto.it, che funziona egregiamente come amplificatore dei messaggi. Ed è quello che ci ha permesso di avere decine di migliaia di abbonamenti a scatola chiusa, senza neanche aver visto un progetto della testata».

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[ad]Lei ha detto e scritto che l’esigenza era quella di non assomigliare a nessun altro giornale.
«Ho passato in rassegna moltissimi giornali di tutto il mondo, dal Canada agli Stati Uniti al Sud America all’Europa, escludendo l’Asia per evidenti ragioni. Quello che vedo attualmente nelle pagine dei giornali è che i titoli non vengono all’occhio: ho cercato di dare voce al titolo, riportando il quotidiano a messaggi chiari e forti, e da qui è nato il concetto dello strillone, partendo da quelli americani degli anni Trenta. E anche se i semafori di adesso, ai semafori, non urlano il concetto è lo stesso. Ecco come è nata l’icona della testata, il pupazzetto col megafono e il giornale in mano».

Nel differenziarsi da altri esempi, c’è un modello che l’ha ispirata in qualcosa? Nel formato, nei colori…
«Il formato è stata una scelta editoriale, legata anche alle esigenze logistiche della tipografia: e le dimensioni sono quelle standard che hanno anche “La Stampa” e “il Giornale”. Per la struttura grafica invece ho spulciato molto nell’editoria americana e inglese, cercando anche nei caratteri qualcosa di ‘antico’ e che garantisse anche nella singola riga una quantità di battute sufficienti per dire qualcosa. La lingua italiana è più lunga dell’inglese, quindi fare i titoli strillati è più difficile. E poi partendo da questo stile ‘vecchio’ ho iniziato a introdurre elementi di grafica basati sul colore e sugli incastri, che sono più da settimanale. Cosa inevitabile visto che ho alle spalle diciassette anni all’“Espresso”. È stato un esperimento e visti i risultati delle vendite andrò avanti su questa linea».

Lei ha detto stile un po’ ‘vecchio’. Però, essendo “il Fatto” un giornale nuovo, perché la scelta non è stata quella di innovare anche nell’impianto grafico, che è peraltro tutto a colori?
«Diciamo che nei quotidiani la qualità di stampa è penalizzata, perciò non si può rischiare troppo. Un conto è fare delle prove su carta bianca patinata, altro è quando le vedi su una carta da 45 grammi in cui la colorazione è sempre leggermente giallina: qualsiasi colore fai devi tenere presente che c’è una quota di giallo e nero nella carta stessa. Per questo è più difficile innovare e stabilire i colori».

A proposito di colori, quello dominante (a partire dalla testata) è il rosso, abbinato al bianco. Che è un colore già abbastanza sfruttato, penso all’“Unità” o all’“Espresso”.
«Sì, io ho cercato di mantenere un concetto di tradizione partendo da chi stava creando il giornale, cioè Antonio Padellaro, al cui fianco c’è ancora Furio Colombo. Non potendo riproporre una striscia rossa, che era il simbolo dell’“Unità”, abbiamo scelto di mantenere il rosso nella testata. Tant’è vero che la prima testata progettata era su una striscia rossa, poi abbiamo cambiato perché non funzionava e alla fine si è arrivati a quella attuale. Mantenendo però il rosso nella parte alta del giornale, e riportando lo stesso colore nella struttura ‘a soppalco’ che ricorre nelle pagine interne. Al rosso, poi, ho accostato dei colori che potessero funzionare su una carta di quel tipo. Troppe sfumature sarebbero state un rischio».

Veniamo ai riscontri che ha avuto questa grafica. È una grafica che ha fatto abbastanza discutere.
«Purtroppo finora non ho potuto seguire i riscontri perché non ho avuto il tempo, ero troppo immerso nella fase produttiva iniziale che non mi ha consentito di guardare nulla. Poi non appena prenderemo un ritmo normale metteremo mano a quei dettagli che so che vanno corretti, tenendo però fede al progetto iniziale. Il punto di partenza è che ogni format va legato all’articolo in maniera coordinata ed equilibrata, un titolo strillato non può riferirsi a un argomento futile e viceversa. Tutto questo va messo a punto gradualmente con la collaborazione della redazione, assieme alla quale siamo in una fase di rodaggio. Capita il giorno dopo di vedere il giornale e dire ‘però questo non va bene così’, fa parte del mestiere e dei ritmi di un quotidiano, il lavoro richiede molta flessibilità ed è inutile incaponirsi su un progetto se non è applicabile. Per quanto riguarda critiche o apprezzamenti c’è chi ha criticato, sono arrivate lettere che dicevano ‘la grafica fa schifo’. Ma da quando lavoro nei giornali, ogni volta che ho seguito un progetto mio o di altri è stato così».

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[ad]A proposito di critiche, ce n’è stata una che ha fatto molto discutere: nel blog di Massimo Mantellini ha avuto grande eco un post in cui vengono elencate tutte le criticità. Primo punto: il sottolineato in tipografia non esiste, era alle origini un espediente per indicare il corsivo o il grassetto. Come replica?
«Se l’accusa è di essere vecchio rispetto alla titolazione la respingo in quanto per me il sottolineato significa mettere in evidenza: quando uno scrive un appunto sottolinea qualcosa. È un modo per evidenziare senza mettere caratteri bold, neri, extralarge che possono appesantire. Non lo vedo come un problema, poi può dare forse fastidio a qualcuno, ad altri piace; l’importante è l’equilibrio con cui lo si usa, sempre nella logica della messa a punto che avverrà. Per dire, se i catenacci sono sottolineati gli incisi non devono essere sottolineati e viceversa. Si tratta sempre di trovare un equilibrio visivo tra le cose, se tutto è sottolineato la sottolineatura perde di efficacia. Anche se è un elemento grafico che nei giornali esteri viene usato tranquillamente».

Il secondo punto riguarda il maiuscolo nei titoli: non c’andrebbe, se non nei box in negativo.
«Io ho scelto quel carattere perché nel maiuscolo aveva leggibilità ed era piacevole. L’errore può nascere quando le giustezze vengono troppo riempite, ma se la redazione rispetta i bianchi che erano nel progetto non vedo questo problema. Io spesso anche a mano scrivo tutto alto, e il Modern 735 non è un carattere bellissimo nell’alto e basso. C’è un uso intermedio, con titoli tutti alti e titoli alti e bassi: dipende dalle esigenze. Poi, voglio dire, tutto è opinabile: sono stato sotto la direzione di Gianni Perrelli che mi diceva ‘fai come ti pare, la grafica è un’opinione’. Non sono ovviamente d’accordo ma ha un suo fondo di verità ».

Altro elemento: la compressione orizzontale dei titoli, la spaziatura (cioè il kerning & tracking).
«Premetto che il progetto è stato fatto a velocità molto elevata e ho potuto visionare il sistema di impaginazione solo una volta prima di uscire con il primo numero, per cui alcuni automatismi non sono stati completamente messi a punto. Si tratta di trovare l’equilibrio nella compensatura dei titoli: sono critiche che accetto perché le conosco e ci sto lavorando sopra. E poi siamo una struttura piccola, non abbiamo venti grafici come “Repubblica”».

I titoli non riempiono l’area bianca, spesso ci sono ‘buchi’ di lato ai titoli. È una scelta?
«È una scelta, chiaro che ci vuole equilibrio anche qui. Fa parte sempre del processo di ‘educazione’ della redazione, perché poi li fanno loro i titoli e sono loro che devono imparare e appropriarsi di questo linguaggio. Ci sono delle esigenze tecniche e delle libertà che vanno rispettate, io con il mio lavoro cerco solo di far capire le cose in modo che vengano applicate. Ma poi c’è la responsabilità di chi le fa».

Ultimo punto: quello di usare molti (o troppi) caratteri diversi: Helvetica, Garamond, due tipi di Modern, Gill Sans. Perché questa scelta?
«È stata una scelta, la famiglia di base è quella del Modern. Poi ogni carattere va usato per il suo scopo, il Gill funziona a livello di testo più dell’Helvetica che secondo me ha gli occhi troppo grossi, ma ha un impatto visivo minore: l’Helvetica invece per le scritte evidenti è più funzionante e pulito, è come un AvantGarde ma meno lezioso. Invece nei testi ho scelto il Garamond dopo molte prove su campioni perché mi sembrava un carattere funzionante. Però il Garamond non mi piace nella titolazione, per questo ho usato il Modern 735».